Categorie: Diritto Unione Europea e Antitrust

Alimenti: il concetto di “etichettatura ingannevole” per la Corte di Giustizia
Data: 22 Dic 2015
Autore: Manuela Giacomini

On June 4th 2015, the Court of Justice delivered its judgment C-195/14 ruling that the prohibition of “misleading labeling”, pursuant to art. 2 of Directive 2000/13/EC must be interpreted as meaning that it is not allowed that the labeling of a food and the methods used may suggest, by the appearance, description or graphic representation of a given ingredient, the presence of the latter in such product when it in fact such ingredient is absent and that absence emerges only from the list of ingredients on the packaging of said product.

Il 4 giugno scorso, la Corte di Giustizia ha emesso la sentenza C-195/14 che ha chiuso una vicenda giudiziaria iniziata per via di un ricorso dell’”Unione federale” tedesca delle associazioni dei consumatori contro una ditta produttrice di un “infuso ai frutti” la cui confezione riportava in etichetta la dicitura “infuso ai frutti con aromi naturali – gusto lampone – vaniglia” e, in un altro punto, l’espressione “solo ingredienti naturali”.
In realtà però, in quell’infuso non erano stati impiegati né il lampone né la vaglia ma solo “aromi al gusto” di quegli ingredienti e su ciò si basava l’accusa dell’associazione dei consumatori tedeschi.
Il 6 marzo 2012, il primo giudice adito, il Landgericht Dusseldorf, accoglieva il ricorso dei consumatori.
Su appello del produttore però, il 19 febbraio 2013, il Tribunale regionale superiore di Dusseldorf annullava la prima sentenza e respingeva tale ricorso poiché a suo avviso l’etichetta informava in modo corretto il consumatore sul fatto che l’infuso era solo “al gusto” di lampone e vaniglia e non attestava che tali aromi erano stati ottenuti in modo diretto da questi ingredienti.
I consumatori hanno quindi presentato ulteriore ricorso presso la Corte Federale di Giustizia la quale ha invece ravvisato che nell’etichetta vi era un suggerimento sulle qualità dell’infuso tale da “creare un falsa impressione per quanto riguarda la sua composizione” anche nei confronti di un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto e con sentenza del 26 febbraio 2014 ha così sospeso il giudizio e ha sottoposto alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale:
“Se sia consentito che l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari nonché la relativa pubblicità suggeriscano, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare ingrediente, quando invece, in effetti, tale ingrediente non è presente e ciò si evince unicamente dall’elenco degli ingredienti ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13”
Per completezza, si precisa che malgrado la sentenza della Corte Federale sia del febbraio 2014 ovvero quando era già in vigore il regolamento UE 1169/2011, la questione pregiudiziale fa riferimento alla direttiva 2000/13/CE che era in vigore all’epoca dei fatti.
Su tale questione pregiudiziale si è quindi pronunciata la Corte di Giustizia, richiamando non solo le regole presenti nella direttiva 2000/13/CE che vietano di “indurre in errore” l’acquirente attraverso l’etichettatura e le sue modalità di realizzazione (art. 2), ma anche il regolamento CE 178/2002 che ribadisce tale divieto riferendosi anche alla correttezza della presentazione degli alimenti, in particolare alla loro “forma, aspetto o confezionamento, i materiali di confezionamento usati, il modo in cui sono disposti, il contesto in cui sono esposti e le informazioni rese disponibili su di essi attraverso qualsiasi mezzo”. Tali elementi, infatti, non devono trarre in inganno i consumatori.
La Corte ha poi ricordato che non spetta a lei decidere se l’etichettatura di taluni prodotti sia tale da indurre in errore il consumatore o decidere se una denominazione di vendita sia ingannevole o meno, poiché tale compito spetta al giudice nazionale. Tuttavia, la Corte ha ritenuto di poter fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua decisione.
Alla luce di quanto sopra, la Corte ha quindi approfondito il tema del divieto di “indurre in errore” il consumatore medio tramite l’etichettatura e la presentazione degli alimenti, chiarendo che questo si informa innanzitutto tramite la lettura dell’elenco degli ingredienti, la cui correttezza però non esclude che l’etichettatura possa comunque essere “ingannevole” poiché essa è composta anche da altri elementi quali immagini, simboli, marchi di fabbrica menzioni e alcuni di essi possono risultare “mendaci, errati, ambigui, contraddittori o incomprensibili”.
In pratica quindi, a parere della Corte, l’elenco degli ingredienti, pur essendo completo, a volte può non essere sufficiente a correggere il messaggio dato dagli altri elementi presenti in etichetta quando questi suggeriscono che il prodotto contiene un ingrediente che in realtà non c’è.
Il compito di verificarlo però spetta al giudice nazionale, il quale deve prendere in considerazione “i termini, le immagini utilizzate nonché la collocazione, la dimensione, il colore il carattere tipografico, la lingua, la sintassi e la punteggiatura dei diversi elementi riportati sulla confezione dell’infuso ai frutti”.
La Corte ha quindi concluso che il divieto di “etichettatura ingannevole”, ai sensi dell’art. 2 della direttiva 2000/13/CE va interpretato nel senso che “non è consentito che l’etichettatura di un prodotto alimentare e le relative modalità di realizzazione possano suggerire, tramite l’aspetto, la descrizione o la rappresentazione grafica di un determinato ingrediente, la presenza di quest’ultimo in tale prodotto quando invece in effetti tale ingrediente è assente e tale assenza emerge unicamente dall’elenco degli ingredienti riportato sulla confezione di detto prodotto”.

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