Partendo da una considerazione di carattere del tutto preliminare, è mia convinzione che, al di là delle schematiche contrapposizioni tra le visioni cosiddette euro-scettiche ed euro-ottimistiche, i Trattati di Lisbona rappresentino un ulteriore progresso verso l’integrazione comunitaria.
Ovviamente per chi crede nell’Europa, lo scopo ultimo non è raggiunto e d’altronde l’Unione Europea, fin dalle sue origini, è un cantiere costantemente aperto, né potrebbe essere diversamente.
Oggi più che mai nel pieno di una crisi finanziaria di dimensioni globali, o meglio, di quella che deve considerarsi a mio avviso una modifica strutturale dei rapporti economici e geopolitici mondiali, l’Europa ha di fronte a sé una strada obbligata: accrescere il livello di coesione e quindi il suo tasso di capacità decisionale. L’alternativa sarebbe infatti un totale e definitivo fallimento del processo dalle conseguenze imprevedibili, riportando agli anni ‘50 l’orologio della storia, ma solo per noi europei.
Anche in questo momento, dunque, il cantiere è aperto. Nel mese di luglio del 2011 è stato raggiunto un accordo sul servizio diplomatico comune nel mentre forme di gestione delle crisi economiche diventeranno permanenti. In questi mesi poi, l’Italia ha recuperato un ruolo non secondario.
La moneta unica (avviata nel ’90 a Roma e realizzata nel 2001) non potrà non trainare verso l’unità tutti i fattori economici sottostanti che ne determinano il valore sui mercati e la credibilità internazionale. Di ciò sono concreta testimonianza, al di là dei sofferti percorsi di ratifica, i recentissimi Trattati MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), firmato il 2/2/2012 e sulla Stabilità,Coordinamento e Governance nell’Unione Economica e Monetaria, firmato il 2/3/2012 nonché le conclusioni del Summit 28/6/2012 fra i Capi di governo dell’area Euro.
In questo contesto, mi sembra dunque particolarmente significativo lo sviluppo impresso dai Trattati di Lisbona al settore del diritto penale. E ciò proprio perché, come ben noto, questo settore si è sempre dimostrato, per sua natura, espressione dei poteri statuali e, quindi, particolarmente impermeabile ad ogni “ingerenza esterna”.
In tale settore, dunque, il percorso verso un diritto penale armonizzato è stato e sarà particolarmente lungo e faticoso ed i suoi risultati sono e saranno, proprio per questo, particolarmente significativi.
Il percorso vede la sua nascita in epoca assai lontana e ben anteriore alle prime sentenze rese dalla Corte di Giustizia con ricadute sul diritto penale nazionale di cui la sentenza del giugno ’87 “Pretore di Salò” è espressione.
Si parte, infatti, da un’idea promossa nell’ormai lontano 1975 dall’allora Presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Idea che troverà una prima concreta manifestazione nel 1995 allorché il Parlamento Europeo dette vita ad un gruppo di studio grazie al quale iniziò a formarsi un “corpus iuris” di diritto penale comunitario che, aggiornato nel corso del tempo, costituisce oggi una solida base di studio per tutti coloro che siano chiamati a sviluppare gli attualissimi temi connessi all’armonizzazione del diritto penale sostanziale ed alle regole di procedura che dovranno permettere la connettività dei vari sistemi e rendere concreta la gestione processuale dei nuovi “reati federali” chela Procura europea, prevista dall’articolo 86 del TFUE, sarà chiamata a perseguire.
Prima di entrare in taluni approfondimenti, compatibili con il tempo accordato dall’occasione, sui passaggi giurisprudenziali che hanno caratterizzato in chiave fortemente evolutiva le sentenze rese dalla Corte di Giustizia nei diversi steps modificativi dei Trattati susseguitisi nel tempo, sembra dunque opportuno schematizzare in termini cronologici alcune date storiche che hanno segnato momenti di svolta nello sviluppo dell’influenza del diritto comunitario negli ordinamenti penali degli Stati membri.
Gli accordi di Schengen, innanzitutto, firmati il 14 giugno 1985 (divenuti successivamente parte integrante del Trattato dell’Unione Europea di Maastricht del 1992) portarono all’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne dello spazio Schengen, alla collaborazione delle forze di polizia e possibilità di queste di intervenire in alcuni casi anche oltre i propri confini, al coordinamento degli Stati nella lotta alla criminalità di rilevanza transnazionale ed all’integrazione delle banche dati delle forze di polizia.
Gli accordi in questione sono poi stati integrati dalla non meno importante Convenzione sull’applicazione dei medesimi (CAAS firmata il 19 giugno 1990).
Passando dal Trattato di Maastricht del1992 aquello di Amsterdam del 1997 col quale è stato formalmente creato uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (sui Trattati in questione si tornerà nel prosieguo per le parti attinenti questa relazione), non possono certo essere ignorati i Consigli europei di Cariff del giugno ’98, di Tampere, dell’ottobre 1999, e dell’Aja, del marzo 2005.
È il Consiglio di Tampere che sviluppa i seguenti temi:
– mandato di arresto europeo;
– accesso alla giustizia;
– standard minimi uniformi per taluni reati di particolare rilevanza;
– tutela delle vittime dei reati;
– reciproco riconoscimento delle decisioni penali ivi comprese le ordinanza di natura preliminare (sequestro probatorio, ecc) e le decisioni in materia di confisca;
– utilizzo delle prove legalmente acquisite secondo l’ordinamento processuale degli Stati membri;
– potenziamento Europol (era già stata istituita nel 1992);
– istituzione di Eurojust (verrà formalmente istituita il 28 febbraio 2002);
– potenziamento dell’OLAF (istituito con decisione della Commissione 1999/352/CE, CECA, EURATOM del 28.04.1999).
Il Consiglio dell’Aja si farà poi cura di sviluppare il programma di Tampere con particolare riferimento ai seguenti punti:
- criminalità transnazionale e terrorismo;
- frodi comunitarie e reati (fra cui la corruzione) che arrechino lesione agli interessi finanziari della Comunità.
In questo Consiglio merita anche essere ricordato che, pur se non strettamente attinente il tema, vengono fatti frequenti riferimenti a un Trattato istitutivo di una Costituzione europea (si ricordi che il 1° febbraio del 2003 era entrato in vigore il Trattato di Nizza e che il 4 ottobre del medesimo anno aveva avuto iniziola Conferenza Intergovernativaper l’adozione della Costituzione europea) al momento dell’entrata in vigore della quale l’Unione si troverà ad avere una base giuridica particolarmente solida per la regolamentazione dello spazio giudiziario europeo. Purtroppo, questo fondamentale passaggio è rimasto incompiuto (la Costituzioneeuropea venne firmata nel 2004 ma fu accantonata dopo l’esito negativo dei referendum francese ed olandese che ne bocciarono la ratifica nel 2005).
Meritano ancora menzione in questo sommario elenco l’azione comune (96/277/GAI) sul magistrato di collegamento e l’azione comune (98/428/GAI) sulla rete giudiziaria europea.
Ed ancora, per coloro che desiderino approfondire la materia, i numerosi “Libri verdi” che si sono succeduti negli anni più recenti:
q il Libro verde sugli interessi finanziari della Comunità e sulla Procura europea (2001-2003);
q il Libro verde sulle garanzie processuali (2003);
q il Libro verde su ravvicinamento, reciproco riconoscimento delle decisioni in materia penale e sull’esecuzione delle sanzioni penali (2004);
q il Libro verde sul reciproco riconoscimento delle misure cautelari non detentive.
Merita altresì essere ricordata la proposta di raccomandazione del 9 febbraio 2005 formulata dal Parlamento europeo al Consiglio sulla giustizia penale.
In questo contesto, a mio avviso, una menzione separata e particolare spetta alla decisione-quadro 2002/584 GAI sul mandato di arresto europeo che segna di fatto una vera e propria fine della nozione di estradizione riconducibile al diritto internazionale. La legislazione italiana vi ha dato, come noto, attuazione con legge 69/2005 e credo che gli operatori del diritto penale potranno convenire con me e con chi, più autorevolmente di me, preferisce definire questa procedura, operativa nell’ambito dell’Unione Europea con alcune estensioni a Paesi non membri, non già come “estradizione” ma piuttosto come “consegna”.
Un altro capitolo particolarmente significativo, cui pare doveroso fare quanto meno accenno, è poi quello connesso al complesso tema del “giusto processo”. Solo un richiamo per ricordare che, in questo ambito, il diritto comunitario si ricollega al diverso ma sempre più convergente filone giuridico riconducibile alla Convenzione dei diritti umani e alla relativa Corte sedente in Strasburgo. Ma questo tema meriterebbe davvero una trattazione separata.
Ci si limita a ricordare qui la sentenza n.113/2011 della Corte Costituzionale con la quale è stata decisa l’illegittimità dell’art.630 del C.p.p. nella parte in cui non prevede il caso di revisione di una pronuncia di condanna per conformarsi a una sentenza della Corte dei diritti dell’Uomo.
Tornando dunque all’argomento ed a quanto già precedentemente accennato sul punto, è il Trattato di Amsterdam che, modificando il precedente Trattato di Maastricht, apporta una vera e propria rivoluzione normativa all’intervento legislativo comunitario negli ordinamenti penali degli Stati membri.
Con questi Trattati nasce infatti il cosiddetto sistema a “tre pilastri”.
Il “primo pilastro” riguardava le Comunità europee ovvero un mercato comune europeo, l’Unione economica e monetaria e una serie di altre competenze aggiuntesi nel tempo (ricordiamo tra esse la ricerca scientifica, il diritto dell’ambiente, il welfare, l’asilo politico, gli accordi di Schengen e la politica di migrazione) oltre alla politica del carbone e dell’acciaio e quella atomica.
Il secondo affrontava la politica estera e di sicurezza comune, ossia la costruzione di una sola politica dell’Europa nelle sue relazioni sullo scenario globale.
Il terzo, ovvero la cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, intendeva costruire uno spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia in cui vi fosse un reciproco affidamento a priori sui sistemi penali degli Stati membri ed una sempre più stretta collaborazione tra loro soprattutto in ragione delle sfide contro la grande criminalità (di natura comune e terroristica) transnazionale.
È peraltro chiaro che questo fondamentale passaggio non poteva non avvenire con qualche prudenza. Solo il “primo pilastro” era infatti caratterizzato da una procedura di formazione della legislazione di fonte comunitaria definibile come “metodo comunitario”. Non così gli altri due ed in particolare il terzo lasciando agli Stati un potere decisionale prevalente (“metodo interstatale”) nell’iter formativo di quelle particolari norme dotate della capacità di intervenire concretamente con i loro effetti negli ordinamenti penali degli Stati membri. Norme che sono fra l’altro caratterizzate anche da una diversa denominazione rispetto a quelle riconducibili al “primo pilastro”.
Stiamo parlando delle:
- posizioni comuni, di natura meramente orientativa;
- decisioni-quadro, per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri;
- decisioni, per il raggiungimento degli scopi individuati nel Titolo VI del Trattato di Amsterdam;
- convenzioni, costituenti mera raccomandazione per gli Stati membri e capaci di entrare in vigore solo una volta adottate da almeno la metà di tali Stati e solo relativamente ad essi.
Dallo schema che precede emerge chiaro che solo le decisioni-quadro e le decisioni potevano costituire un vincolo nei confronti degli Stati ma erano comunque prive di efficacia diretta essendo lasciato agli Stati il compito di darvi attuazione entro una certa data con libertà di forma e di mezzi. Nulla dunque di paragonabile agli strumenti legislativi del “primo pilastro” con particolare riferimento ai regolamenti, sempre direttamente ed immediatamente applicabili, ed alle direttive self-executing.
Quanto poi al fondamentale strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Giustizia da parte dei giudici nazionali merita rimarcare che ogni Stato è rimasto libero di accettare la competenza della Corte di Giustizia in questo specifico ambito (che tutti gli Stati membri l’abbiano accettata non muta il fatto che tale accettazione potesse anche non essere accordata).
Con i Trattati di Lisbona la suddivisione nei “tre pilastri” non esiste più e le fonti legislative dell’Unione restano per tutti i settori quelle proprie del “primo pilastro” e quindi, in particolare, i regolamenti e le direttive. Peccato solo che una certa prudenza abbia impedito di definire “legge” quanto meno i regolamenti. Valga l’annotazione storica che se ne è cominciato a parlare nell’ambito del lavoro di elaborazione dei nuovi Trattati ma che, al momento, non si è raggiunto il consenso necessario su questo ed altri punti che, tuttavia, sono ormai a portata di mano.
Prima di passare ad un excursus dell’evoluzione giurisprudenziale in questo settore, maturata a seguito di rinvii pregiudiziali interpretativi alla Corte da parte delle giurisdizioni nazionali, è bene richiamare, anche per meglio comprendere la portata del fenomeno, alcune delle decisioni-quadro emanate nel corso degli anni nell’ambito del “terzo pilastro”, quanto meno ricordando i settori che sono stati toccati da tali fonti normative. Alcune sono già state citate precedentemente ma non è inutile richiamarle:
– decisione-quadro sulle squadre investigative comuni;
– decisione-quadro sulla posizione della vittima nel procedimento penale;
– decisione-quadro sul riciclaggio;
– decisione-quadro sull’esecuzione dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio;
– decisione-quadro relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato;
– decisione-quadro sul reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie;
– decisione-quadro in materia di traffico illecito di stupefacenti;
– decisione-quadro relativa allo sfruttamento dei minori e alla pornografia infantile;
– decisione-quadro relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato;
– decisione-quadro sul rafforzamento del contesto penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, transito e soggiorno illegali;
– decisione-quadro sulla lotta alla tratta di esseri umani;
– decisione-quadro sulla lotta contro il terrorismo;
– decisione-quadro relativa alla lotta contro le frodi e le falsificazione di mezzi di pagamento diversi dai contanti;
– decisione-quadro sul rafforzamento a mezzo di sanzioni penali contro la falsificazione di monete in relazione all’introduzione dell’Euro;
– decisione-quadro relativa alla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale;
– decisione-quadro relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione;
– decisione-quadro sui fornitori di servizi forensi che effettuano attività di laboratorio;
– decisione-quadro sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione cautelare;
– decisione-quadro sull’organizzazione e contenuto degli scambi di informazioni estratte dal casellario giudiziario;
– decisione-quadro sui procedimenti penali in contumacia;
– decisone-quadro sul mandato europeo di ricerca delle prove da utilizzare in procedimenti penali;
– decisione-quadro sulla protezione dei dati personali trattati nell’ambito della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale;
– decisione-quadro sul reciproco riconoscimento a sentenze e decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza, delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive;
– decisione-quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia mediante il diritto penale;
– decisione-quadro sul reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione nell’Unione Europea;
– decisione-quadro relativa alla lotta contro la criminalità organizzata;
– decisione-quadro relativa alla considerazione delle decisioni di condanna tra Stati membri dell’Unione in occasione di un nuovo procedimento penale (recidiva comunitaria);
– decisione-quadro sulla semplificazione dello scambio di informazioni e intelligence fra le autorità degli Stati membri;
– decisione-quadro relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca;
– decisione-quadro intesa a rafforzare la cornice penale per la repressione dell’inquinamento provocato dalle navi;
– decisione-quadro relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra gli Stati membri. È certamente una delle più note ed è stata attuata in Italia nel 2005.
L’elencazione non è completa e non segue necessariamente una sequenza cronologica.
È anche altamente significativo tenere in considerazione il fatto che talune delle materie affrontate dalle decisioni-quadro nell’ambito del “terzo pilastro”, erano già state oggetto di direttive, emanate quindi nell’ambito del “primo pilastro” senza che, pertanto, il legislatore comunitario potesse estendere il proprio intervento alla sfera penalistica. O almeno così si pensava.
Ed è su questo sottile punto di diritto chela Cortedi Giustizia ha avuto modo di intervenire con talune sentenze di portata straordinariamente evolutiva.
Tali sentenze, come si capirà facilmente nel prosieguo, non nascono da rinvii pregiudiziali di giudici nazionali ma da ricorsi della Commissione europea, sostenuta dal Parlamento europeo, contro il Consiglio dell’Unione Europea sostenuto da numerosi Stati membri. In tali casi,la Commissioneeuropea aveva infatti ritenuto che dovessero essere annullate talune decisioni-quadro emanate dal Consiglio nel presupposto che il contenuto di rilevanza penale di dette decisioni-quadro fosse finalizzato a garantire una particolare, indispensabile tutela/effettività in materie che rientravano nella competenza della Comunità (“primo pilastro”) e che, pertanto, secondola Commissionedovevano essere regolamentate da direttive anche con riferimento alle disposizioni di natura penale.
Ho in mente in particolare due casi (C-176/03 e C-440/05) conclusi, rispettivamente con sentenze 13 settembre 2005 (sulla decisione-quadro 2003/80/GAI-protezione dell’ambiente) e 23 ottobre 2007 (sulla decisione-quadro 2005/667/GAI-repressione dell’inquinamento provocato dalle navi).
Con tali sentenzela Cortedi Giustizia, accogliendo la tesi della Commissione, ha annullato le decisioni-quadro da essa contestate ed ha affermato il principio che nelle materie soggette al diritto comunitario sulla base del “primo pilastro”, ove sanzioni penali siano ritenute necessarie e proporzionate per garantire l’effettività della tutela, il legislatore comunitario non ha necessità di ricorrere agli strumenti legislativi previsti dal “terzo pilastro” ed anzi, essendovi una tassativa competenza di carattere comunitario, deve provvedere sulla base giuridica fornita dal “primo pilastro”.
Della sentenza del 2007 meritano davvero essere testualmente citati alcuni punti della motivazione “66 Se è vero che, in via di principio, la legislazione penale, così come le norme di procedura penale, non rientrano nella competenza della Comunità, resta non di meno il fatto che il legislatore comunitario, allorché l’applicazione di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive da parte delle competenti autorità nazionali costituisce una misura indispensabile di lotta contro danni ambientali gravi, può imporre agli Stati membri l’obbligo di introdurre tali sanzioni per garantire la piena efficacia delle norme che emana in tale ambito” anche se “70 per quanto riguarda invece la determinazione del tipo e del livello delle sanzioni penali applicabili, occorre evidenziare che questa non rientra nella competenza della comunità, contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione”.
L’Europa a “tre pilastri”, sostanzialmente, era dunque già finita prima dei Trattati di Lisbona e così il ruolo di “Cenerentola” della materia penale.
Ancora una volta, come sempre,la Cortedi Giustizia è stata all’altezza del suo compito di interprete evolutivo del diritto comunitario, con coraggio e ragionata prudenza.La Commissioneinfatti aveva sostenuto che nelle materie di competenza comunitaria potessero trovare spazio non solo previsioni di natura penale ma anche l’individuazione del loro contenuto minimo (standstill) quanto alla sanzione applicabile.La Corteha fatto davvero molto, anche sul piano della moral suasion, accogliendo il primo punto. Si è fermata di fronte al secondo in attesa di imminenti sviluppi.
Partendo da questa ennesima conferma del fondamentale ruolo della Corte di Giustizia nella costruzione e crescita dell’edificio europeo, solo per agevolare la miglior comprensione dei non addetti ai lavori, penso sia utile ricordare che le sentenze rese dalla Corte all’esito di rinvii pregiudiziali disposti dai giudici nazionali hanno sempre e solo lo scopo di interpretare il diritto comunitario obbligando i giudici nazionali ad eventualmente disapplicare le normative degli Stati membri che si pongano in contrasto con le norme comunitarie così come interpretate dalla Corte.La Corteè infatti chiamata ad essere la sola autorità dotata del potere di interpretare il diritto comunitario e ciò all’ovvio ed evidente fine di garantire un’uniforme applicazione dello stesso da parte delle autorità di tutti gli Stati membri. Una sentenza interpretativa della Corte di Giustizia può dunque determinare non solo la decisione del caso nazionale dal quale il quesito pregiudiziale trae origine ma risolverà con effetto immediato e generale ogni eguale questione di diritto la cui soluzione debba essere affrontata da un qualunque giudice nazionale che, non dimentichiamolo, è giudice di prima istanza del diritto comunitario soggetto all’obbligo di applicarlo ma non facoltizzato alla sua interpretazione.
Gli articoli dei Trattati che hanno regolamentato il rinvio pregiudiziale hanno cambiato la loro numerazione nel tempo (dall’art 177 TCEE all’art 234 TCE), con il Trattato di Maastricht-Amsterdam si è poi aggiunto l’articolo 35 TUE, di cui già si è detto, volto a regolamentare la materia con riferimento al settore penale.
Il TFUE abolendo la struttura a “tre pilastri”, ha unificato il meccanismo. Il rinvio pregiudiziale è oggi regolato dall’articolo 267 di tale Trattato che, vale la pena di ricordarlo, all’ultimo comma (assolutamente nuovo) precisa che la Cortechiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale “quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a un organo giurisdizionale nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile”.
Il messaggio è chiaro e non sembra davvero sia necessario spendere molti argomenti per affermare chela Cortedi Giustizia attende un alto numero di rinvii provenienti dai giudici penali degli Stati membri ed è pronta, nell’ambito della più articolata organizzazione che i Trattati di Lisbona hanno conferito alla giurisdizione comunitaria, ad assolvere il suo ruolo di protagonista nella creazione di un diritto uniforme anche nel settore penale. E ciò senza nulla togliere ad altre fondamentali istituzioni quali OLAF, Europol ed Eurojust operativamente impegnate a dare anche concreta visibilità ad una giurisdizione penale comunitaria che la nuova Procura europea renderà oltremodo evidente agli occhi dei cittadini dell’Unione.
È poi utile ricordare che, per quanto il rinvio pregiudiziale sia previsto dalla norma come obbligatorio solo per gli organi giurisdizionali nazionali di ultima istanza (così anche l’articolo 267 TFUE), la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di chiarire ripetutamente che anche i giudici non di ultima istanza sono ragionevolmente tenuti a formulare le questioni pregiudiziali sulla base del generale principio dell’economia processuale che vuole non sia protratta per più gradi di giudizio la soluzione di un punto di diritto che può condizionare la decisione del caso. I giudici nazionali, d’altronde, si dimostrano ormai da tempo concretamente disponibili a dare attuazione a questo indirizzo.
La nostra stessa Corte costituzionale, infine, ha recentemente riconosciuto a sé medesima la facoltà (fino a ieri esclusa) di formulare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, sia pure in un giudizio promosso in via principale,trattandosi di controversia Stato/Regione, relativamente ad una questione sottoposta al suo esame nell’ambito della quale si renda necessaria l’interpretazione di norme comunitarie. Mi riferisco alla sentenza della Corte Cost. n. 216 depositata il 17 giugno 2010 nell’ambito di un procedimento chela Cortestessa aveva sospeso con la storica ordinanza n. 103 del 2008 rivolgendo alla Corte di Giustizia quesiti pregiudiziali attinenti l’interpretazione degli articoli 49 e 87 del Trattato CE (la norma nazionale di riferimento era la legge della Regione Sardegna 11 maggio 2006, n. 4 che istituiva un’imposta regionale sullo scalo turistico di natanti e aeromobili, imposta sospetta di poter dare luogo a restrizioni alla libera circolazione dei servizi e ad aiuti di stato illegittimi). Merita ricordare che nel collegio giudicante era presente il Professor Giuseppe Tesauro il quale, nel suo straordinario curriculum, annovera anche il prestigiosissimo e fondamentale ruolo di Avvocato Generale della Corte di Giustizia.
Ma un’ulteriore apertura nella parte motiva che apre alla possibilità di un rinvio pregiudiziale anche nell’ambito di un giudizio incidentale di costituzionalità, si rinviene nella sentenza Corte Cost. n. 28 del 28/1/2010.
Ciò detto, proprio per rafforzare la base motivazionale della mia tesi, volta a dimostrare che, grazie alla Corte di Giustizia, il diritto comunitario ha manifestato i suoi concreti effetti sugli ordinamenti penali degli Stati membri seguendo un percorso costantemente evolutivo che nasce prima degli stessi Trattati di Maastricht-Amsterdam, passo alla seconda parte di questa mia relazione richiamando sinteticamente ma, spero, efficacemente alcune pronunce giurisprudenziali (talune rese in giudizi seguiti dal nostro studio) che hanno contrassegnato nel corso dei decenni questo percorso.
Una delle prime sentenze della Corte resa a seguito di rinvio pregiudiziale proveniente da una giurisdizione penale italiana è quella, assai conosciuta e citata, nota come “Pretore di Salò” (sentenza 11/06/1987, in causa C-14/86). Siamo dunque nel 1986/1987, i Trattati di Maastricht-Amsterdam devono ancora arrivare e con essi l’istituzione del “terzo pilastro”, ma l’intervento del diritto comunitario nel diritto penale nazionale degli Stati membri è già in atto.
In quell’occasione, il Pretore di Salò aveva sollevato talune questioni pregiudiziali connesse all’interpretazione della direttiva 78/659 CEE in materia di qualità delle acque, essendo pendente davanti a lui un procedimento penale, peraltro instaurato contro ignoti, relativo a delitti e contravvenzioni previste da diverse disposizioni nazionali in materia di tutela delle acque.La Corteebbe a stabilire alcuni rilevanti principi che, per la verità, non hanno a tutt’oggi modificato la loro portata.
Innanzitutto fu chiarito che qualunque giurisdizione in senso tecnico ha la facoltà/obbligo di sollevare una questione pregiudiziale nel momento in cui agisca nella sua qualità, appunto, di organo giurisdizionale. I più anziani, esperti di diritto penale, ricordano certamente che il Pretore penale cumulava le due funzioni di pubblico ministero (attività di natura non giurisdizionale) e di giudice del dibattimento nel medesimo caso nel quale aveva esercitato le funzioni di pubblico ministero.
In secondo luogo,la Cortechiarì che una direttiva, per quanto crei obbligazioni assolutamente vincolanti per gli Stati membri a darvi attuazione nel termine stabilito dalla direttiva medesima, non può avere l’effetto, di per sé ed indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni.
La questione è, come noto, di straordinario rilievo non solo con riferimento agli effetti di natura penalistica e la giurisprudenza della Corte ha avuto modo di chiarire come dalla mancata attuazione di una direttiva derivi nei confronti dei privati che non possano avvalersene a causa della sua mancata attuazione, una responsabilità anche di natura patrimoniale (sentenza 19/06/1990, in causa C-213/89, Factortame).
La giurisprudenza della Corte, sempre su questo punto, ha anche chiarito che, ove una direttiva abbia comunque un contenuto definibile come self-executing, dopo la data prevista per il suo recepimento e a prescindere da esso, può tuttavia creare obblighi anche per i privati. Anche questo tema meriterebbe una articolata trattazione separata che, evidentemente, non può esser fatta in questa sede.
Ma, rimanendo al punto con stretto riferimento alle problematiche di carattere penale, questa lontana sentenza del 1987 riconduce spontaneamente il ragionamento ad una più recente sentenza del 2005 (sentenza 3/05/2005, in cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02 Berlusconi, Adelchi, Dell’Utri e altri) resa dalla “Grande Sezione”. Anche in questa decisionela Corteha ribadito come una direttiva non recepita nell’ordinamento nazionale non possa determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni. Il principale rinvio pregiudiziale si riferiva alle fattispecie penali previste agli articoli 2621 e 2622 del codice civile e ad una ritenuta incompatibilità delle modifiche apportate a tali articoli con le direttive sul diritto societario (direttiva 68/151 CEE, direttiva 78/660 CEE).
In questo ambito di delicatissime problematiche si poneva altresì il rilevante tema, a beneficio degli imputati, della doverosa applicazione retroattiva della pena più mite, principio comune alle tradizioni costituzionali di tutti gli Stati membri. Tale principio è stato ovviamente ribadito anche in questo caso, nonostantela Cortenon abbia mancato di rilevare che la corretta interpretazione della normativa comunitaria induceva a ritenere che la normativa nazionale che aveva riformato i citati articoli del codice civile appariva non conforme.
Il punto che, tuttavia, mi preme qui richiamare come profondamente innovativo e potenzialmente foriero di evoluzione è quello sollevato nelle splendide conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott (punto chela Cortenon ha per il momento accolto). L’avvocato Generale ha infatti motivatamente sostenuto che, in materia penale, allorché una norma successiva più favorevole risulti non conforme alla prevalente normativa comunitaria e ciò venga dichiarato con sentenza resa dalla Corte, la normativa nazionale perde ogni effetto ab origine e non si pone quindi più, in questo caso, il problema della doverosa retroattività di una norma penale più favorevole emanata successivamente ai fatti.
Valga citare il punto 165 delle conclusioni rese da Juliane Kokott “qualora le disposizioni nazionali siano in contrasto con il diritto comunitario, i giudici del rinvio rimangono dunque tenuti a garantire l’attuazione dei precetti del diritto comunitario, disapplicando tali disposizioni nazionali anche quando si tratti di leggi penali più favorevoli. Si potrebbe osservare che una legge penale contrastante con il diritto comunitario adottata successivamente non costituisce una legge penale più favorevole applicabile”. Interessante rilevare come l’Avvocato Generale, a sostegno della sua tesi, citi con insistenza una sentenza della Corte del lontano 1987 (sentenza 8/10/1987, in causa C-80/86) nella quale il giudice comunitario aveva affermato che i giudici nazionali debbono comunque garantire una applicazione della normativa interna alla luce ed allo scopo di una direttiva che regoli la stessa materia. Anche in quel caso peraltrola Corte aveva ribadito il principio perennemente valido che, in ogni caso, una direttiva non attuata non può determinare o aggravare la responsabilità penale dei singoli.
È fin da subito chiaro che anche e soprattutto per gli operatori del diritto penale, ragionare in termini profondamente evolutivi/innovativi costituisce una prospettiva obbligata in ragione di una armonizzazione sostanziale e processuale nata alcuni decenni fa ed oggi in sempre più veloce cammino facendo affidamento non solo sulla giurisprudenza della Corte ma anche su basi normative capaci di sostenerla ed accrescerla. Oggi i Trattati di Lisbona.
Prima di passare alla disamina delle sentenze rese dalla Corte negli ultimi anni, limitata necessariamente allo scopo di rendere evidenti taluni principi generali dei quali gli operatori del diritto penale non possono non tenere conto, voglio ancora richiamare alcune “antiche” sentenze rese in cause derivanti da procedimenti penali da me personalmente trattati. Fra esse le sentenze 14 luglio 1994 Peralta (C-379/92), 14 dicembre 1995 Banchero (C-387/93) e 25 febbraio 1988 Drexl (C-289/86). Su quest’ultima in particolare, proprio perché è la più risalente, desidero spendere alcune considerazioni. All’epoca non poteva certo invocarsi né il “terzo pilastro” né i Trattati di Lisbona. Si poteva solamente fare affidamento sulla normativa riconducibile al “metodo comunitario” e sui Trattati. Si doveva quindi procedere con modalità tali da fondare la rilevanza dei quesiti pregiudiziali ancorandoli a tali fonti allo scopo di ottenere, in modo per così dire “indiretto”, un risultato capace di riflettersi su una normativa penale nazionale il cui contenuto e la cui interpretazione potesse dipendere dal contenuto ed interpretazione di disposizioni comunitarie di per sé estranee al “mondo penale”.
Il caso Drexl, in questo senso, è davvero esemplare.
Egli, cittadino tedesco residente in Italia, era infatti imputato di contrabbando doganale per evasione dell’IVA cd. all’importazione avendo omesso di perfezionare la procedura di importazione definitiva della propria autovettura, immatricolata in Germania, nel termine previsto. La giurisprudenza nazionale era assolutamente conforme, Cassazione compresa, nel ritenere che fosse del tutto legittimo sanzionare a titolo di contrabbando l’evasione di questa imposta ove l’assolvimento della medesima dovesse avvenire tecnicamente all’atto di una procedura di importazione.
Agli occhi di un giurista minimamente esperto in materia comunitaria la cosa appariva davvero abnorme dal momento che non poteva essere messo in discussione il fatto che l’IVA è un’imposta di natura comunitaria, che in nessun caso essa può costituire un “diritto di confine”, che le frontiere interne della Comunità neppure allora potevano definirsi “frontiere doganali”, che il presupposto del reato di contrabbando è, inesorabilmente, l’evasione di un diritto di confine all’atto del transito ad una frontiera doganale (così anche secondo il diritto comunitario che, come pacifico, regolamenta in modo uniforme la materia doganale).
Una causa penale nazionale impossibile da difendere davanti alle giurisdizioni interne fu facilissima in Corte di Giustizia con la conseguenza che nessun giudice nazionale ha più potuto condannare a titolo di contrabbando l’evasione dell’IVA ove la sua riscossione sia legata al passaggio di una frontiera interna. Liberi ovviamente gli Stati di istituire sanzioni penali in materia ma non su una base giuridica palesemente errata.
Veniamo ora alla giurisprudenza degli ultimi anni, successiva a Maastricht-Amsterdam ma, ovviamente, anteriore a Lisbona, allo scopo di focalizzare taluni principi utili che lo sviluppo impresso dalle motivazioni e dalle conclusioni delle sentenze consente di trarre. Per evitare appesantimenti, cito in nota tutte le sentenze prese in considerazione[i].
Un principio assolutamente ovvio, ma non sempre così chiaro quanto ai suoi effetti, riguarda il fatto che una qualunque nozione giuridica riconducibile all’ordinamento comunitario non può che essere interpretata alla luce di tale ordinamento. In generale il punto è ovvio e chiaro per quanto attiene, ad esempio, definizioni quali quelle di concorrenza, impresa, aiuti di stato, ecc e per quanto attiene gli effetti che ne derivano sul piano interpretativo nelle vertenza davanti ai giudici nazionali.
Ciò che non sempre è chiaro è che il giudizio penale non si sottrae minimamente a tale regola. Rimanendo per un momento al tema dell’IVA, valga ricordare comela Cortedi Giustizia abbia chiarito nel 2005 che, secondo la normativa comunitaria, il fatto generatore dell’imposta, ove si tratti di merci, deve necessariamente essere la loro cessione od importazione. Né il furto di merci all’interno di un deposito fiscale, presenta le caratteristiche peculiari delle situazioni che il legislatore comunitario ha espressamente assimilato alle cessioni e che concernono taluni impieghi dei beni per finalità private o di autoconsumo.
In quel caso era l’amministrazione finanziaria belga (ma anche quella italiana non è estranea al fenomeno) che richiedeva all’importatore, vittima del furto, il pagamento dell’IVA connessa a un quantitativo di sigarette rubate da un deposito fiscale in Anversa; sigarette che pertanto si ritenevano immesse in consumo. La chiarezza e prevalenza della nozione comunitaria ha dunque fatto premio.
Ma gli esempi possono essere davvero molti e, taluni, particolarmente stringenti.
Richiamando gli Accordi di Schengen ela Convenzioneper la loro applicazione nonché il mandato di arresto europeo, è il caso di sottolineare chela Cortedi Giustizia ha fornito definizioni “comunitarie” di fondamentali nozioni penalistiche. Stiamo parlando del principio della “doppia incriminazione” che notoriamente non è previsto come requisito nei rapporti di collaborazione fra gli Stati membri pur in assenza, ad oggi, di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali, sulla base del fatto che esiste una piena fiducia reciproca degli Stati contraenti nei confronti dei loro rispettivi sistemi di giustizia penale.
E stiamo quindi, di conseguenza, parlando di una nozione “comunitaria” del delicatissimo principio che definisce il concetto di “identità dei fatti reato” ed il principio del “ne bis in idem”.
Ma, come gli esperti ben sanno e come chi voglia approfondire potrà constatare, gli effetti a cascata possono essere davvero molteplici.La Cortedi Giustizia, ad esempio, valutando la portata della prescrizione e dei suoi termini temporali così come diversamente quantificati negli ordinamenti penali nazionali, ha precisato che, ove un reato sia stato dichiarato estinto da un giudice nazionale per intervenuta prescrizione, una tale decisione non può costituire la base del “ne bis in idem” per il giudice di un altro Stato membro.
Si trattava di un caso di contrabbando dichiarato prescritto dal giudice penale olandese ela Corteha chiarito che la prescrizione non modifica la qualificazione giuridica dei prodotti oggetto della vertenza penale davanti a questo secondo giudice (belga) che resterà pertanto libero di valutare se dalla messa in commercio di tali prodotti nel territorio del secondo Stato membro e solo apparentemente sulla base dello stesso fatto, non sia derivata la commissione di un nuovo e diverso reato. Solo un giudicato con sentenza definitiva di merito reso in uno Stato membro può dunque impedire che l’autore di quel fatto possa essere perseguito una seconda volta. Questo principio, volto a far sì che la responsabilità dell’imputato venga effettivamente esaminata prima che gli sia garantito il diritto di avvalersi del “ne bis in idem”, è stato ripetutamente affermato anche in relazione a casi provenienti dalla giurisdizione penale italiana ( si veda il rinvio dal Tribunale penale di Bologna deciso con sentenza 10/03/2005, in causa C-469/03).
Sempre in questo filone rientra la parallela valutazione in ordine alla circostanza che i fatti oggetto dei procedimenti penali siano stati o meno commessi e siano quindi, o non siano, collegati dallo stesso disegno criminoso.
In una sentenza resa a seguito di rinvio pronunciato da un giudice penale austriaco (sentenza 22/12/2008, in causa C-491/07), la Corteha affermato che “36 una decisione che, secondo il diritto del primo Stato contraente che ha avviato un procedimento penale a carico di una persona, non estingue definitivamente l’azione penale a livello nazionale, non può infatti, in linea di principio, produrre l’effetto di costituire un ostacolo procedurale all’avvio o al proseguimento di un procedimento penale, per gli stessi fatti, a carico di tale persona in un altro Stato contraente”.
Quanto al fondamentale punto del principio di doppia incriminazione che, come già detto, non è richiesta per il mandato di arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati membri, va anche ricordato chela Corteha avuto modo di ribadire che la decisione-quadro 2002/584 GAI non ha ad oggetto l’armonizzazione del diritto penale sostanziale degli Stati membri basandosi il meccanismo sull’elevato grado di fiducia reciproca e sul fatto che i reati individuati dall’articolo 2, n. 2 della decisione-quadro sono reati comunque definiti dall’ordinamento comunitario e caratterizzati da una gravità tale da giustificare la rinuncia all’obbligo di controllo della doppia incriminazione.
Una sentenza fondamentale in materia affine, resa a seguito di rinvio da parte del GIP del Tribunale di Firenze, è quella nota come “Pupino” (sentenza 16/06/2005, in causa C-105/03). Di questa sentenza meritano essere citati taluni punti: “42 Sarebbe difficile per l’Unione adempiere efficacemente alla sua missione se il principio di leale collaborazione, che implica in particolare che gli Stati membri adottino tutte le misure generali o particolari in grado di garantire l’esecuzione dei loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, non si imponesse anche nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, che è del resto interamente fondata sulla cooperazione tra gli Stati membri e le istituzioni, come ha giustamente rilevato l’avvocato generale al paragrafo 26 delle sue conclusioni.
43 Alla luce di tutte le considerazioni che precedono occorre concludere che il principio di interpretazione conforme si impone riguardo alle decisioni quadro adottate nell’ambito del Titolo VI del Trattato sull’Unione europea. Applicando il diritto nazionale, il giudice del rinvio chiamato ad interpretare quest’ultimo è tenuto a farlo per quanto possibile alla luce della lettera e dello scopo della decisione quadro al fine di conseguire il risultato perseguito da questa e di conformarsi così all’art. 34, n. 2, lett. b), UE.
44 Occorre tuttavia rilevare che l’obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione quadro quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività”.
Sotto diverso profilo, è stato poi anche chiarito il valore della sospensione condizionale della pena ed il fatto che, ove sia stata accordata, la sentenza deve intendersi come eseguita secondo il diritto comunitario; rimarcandosi la radicale differenza che intercorre con la custodia cautelare.
Sempre con riferimento al tema del mandato di arresto europeo ed alla nozione di “stessi fatti” con riferimento al divieto del “ne bis in idem” con conseguente impedimento all’esecuzione del mandato stesso, merita essere richiamata anche la recente sentenza della Corte del 16 novembre 2010 (C-261/09) con la quale è stato ribadito che la nozione di “stessi fatti” è nozione autonoma del diritto comunitario e si è altresì chiarito che il giudice nazionale che emette una richiesta di arresto è la sola autorità (non quindi il giudice dello stato membro richiesto) chiamata a dichiarare che una decisione precedente pronunciata nel proprio ordinamento sia o non sia da ritenersi una sentenza definitiva riguardante gli stessi fatti oggetto del proprio mandato (essendo quindi, a seconda dei casi, ostativa o meno al perseguimento dei reati indicati nel mandato di arresto medesimo).
Così pure la nozione di “ordine pubblico” è stata definita a livello comunitario con riferimento alla libera circolazione dei cittadini degli Stati membri ed alle legislazioni nazionali in materia di divieto di soggiorno e di allontanamento, anche penalmente sanzionati.
Un ulteriore filone giurisprudenziale dal quale emergono interessanti punti interpretativi è poi quello relativo alla nozione di “vittima di un reato” che si rinviene non solo nella decisione-quadro 2001/220 GAI ma anche nella direttiva 2004/80/CE.
In queste pronunce, considerata anche la diversa base giuridica delle due disposizioni, la Corteha adottato un criterio interpretativo estremamente formale. Ha infatti chiarito la non sovrapponibilità delle due disposizioni nonostante la sostanziale identità dell’oggetto ed ha, ad esempio, chiarito che nella nozione di “vittima” definita dalla decisione-quadro possono ricomprendersi unicamente le persone fisiche e non già le persone giuridiche che, invece, sono ricomprese nella nozione definita dalla direttiva che riguarda i profili relativi all’indennizzo e non quelli riguardanti l’esercizio di diritti nell’ambito di un procedimento penale. La Corteha precisato infatti che “anche supponendo che le disposizioni di una direttiva adottata sul fondamento del Trattato CE possano in qualche modo incidere sull’interpretazione delle disposizioni di una decisione-quadro fondata sul Trattato UE e che la nozione di vittima ai sensi della direttiva possa essere interpretata nel senso che essa riguarda le persone giuridiche, la direttiva e la decisione-quadro non si trovano comunque in un rapporto tale da imporre un’interpretazione uniforme della nozione di cui trattasi”.
Un esempio concreto della sostanziale differenza che caratterizza le due diverse fonti normative è fornita, ad esempio, da una sentenza scaturita da un rinvio pregiudiziale proveniente da un giudice penale ungherese ai sensi dell’articolo 35 TUE e riguardante la decisione-quadro (sentenza 09/10/2008, in causa C-404/07) nella quale si è posto il problema di stabilire se la “vittima di un reato” che abbia il potere di promuovere l’azione penale (così è previsto in taluni casi nell’ordinamento ungherese), possa anche essere sentita nell’ambito del procedimento nella qualità di teste o, eventualmente, in altra forma.
Da ultimo, in argomento, meritano di essere richiamate due recenti pronunce della Corte. La prima, riguardante un caso spagnolo, nel riaffermare i diritti della vittima in un procedimento penale, ha tuttavia chiarito che ciò non osta al fatto che un ordinamento nazionale preveda una sanzione di allontanamento obbligatoria di durata temporanea minima dal domicilio coniugale, disposta nei confronti degli autori di violenze commesse in ambito familiare, anche quando le relative vittime(in questo caso le mogli) contestino l’applicazione di una tale sanzione.La Corteinfatti non pone in discussione la supremazia dell’interesse pubblicistico posto alla base del processo penale né l’autonomia dei singoli Stati membri nell’istituire le sanzioni ritenute adeguate alla violazione (Sentenza 15/9/2011 C-483/09 e C-1/10)
La seconda, su rinvio pregiudiziale del GIP di Firenze, che ha riconosciuto la legittimità delle norme processual-penalistiche italiane (artt.392 c.1 bis,398 c.5 bis e 394) che non prevedono l’obbligo per il PM di rivolgersi al giudice per richiedere che la vittima particolarmente vulnerabile (minore) sia sentita secondo le modalità dell’incidente probatorio durante la fase delle indagini preliminari (Sentenza 21/12/2011 C-507/10)
Solo per inciso si ricorda che nel novembre 2007 lo Stato italiano, su ricorso della Commissione, è stato condannato per mancata attuazione entro il termine prescritto dalla direttiva in questione (l’attuazione è poi intervenuta con Decreto legislativo n. 204 del 2007) .
Per comprendere a pieno l’innovazione apportata dal TFUE con l’abolizione del meccanismo a “tre pilastri” e con la conseguente unificazione della procedura di rinvio pregiudiziale, è anche utile sottolineare come, ancora di recente (si veda ad esempio la sentenza 27/02/2007, in causa C-354/04. La sentenza in questione non è stata emessa, peraltro, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale ma nell’ambito del giudizio di appello conseguente a un ricorso davanti al Tribunale di primo grado da parte di un soggetto spagnolo che chiedeva il risarcimento del danno asseritamene derivato dal fatto che una posizione comune del Consiglio lo aveva inserito nell’elenco di persone, gruppi ed entità coinvolti in fatti di terrorismo)la Corteabbia avuto modo di chiarire che il sistema di rimedi giurisdizionali previsti dall’articolo 35 TUE, offre garanzie meno estese nell’ambito del Titolo VI del Trattato sull’Unione europea di quanto non lo siano a norma del Trattato CE, con ciò ribadendo l’esigenza di un’interpretazione restrittiva relativamente alla portata di detto articolo 35. Abbiamo motivo di pensare che con il TFUE questo problema sia superato.
Un ulteriore principio, normalmente applicato in vertenze non aventi connotazione penale ma perfettamente applicabile anche a questioni di tale natura, è poi quello relativo all’obbligo di notifica alla Commissione, da parte di uno Stato membro, di “regole tecniche”, spesso individuate in atti amministrativi che danno contenuto a precetti di natura legislativa connessi a materie rientranti nella competenza comunitaria. La mancata/irregolare notifica di queste “regole tecniche”, che, fra l’altro, potrebbero anche mascherare la protezione di interessi nazionali in violazione di principi comunitari fondamentali quali la libera circolazione delle merci e dei servizi, le rende inapplicabili. Non è infrequente che queste “regole tecniche” si ricolleghino a disposizioni legislative caratterizzate anche dall’individuazione di condotte penalmente sanzionate proprio con riferimento alla violazione di standard in esse previsti. Un esempio utile è quello che si rinviene nel recente caso proveniente dalla giurisdizione penale svedese e relativo alla violazione di “regole tecniche” attinenti l’utilizzo delle moto d’acqua al di fuori dei corridoi pubblici di navigazione (sentenza 15/04/2010, in causa C-433/05) od ancora, sempre proveniente dalla Svezia, in materia di “regole tecniche” relative alle macchine da gioco automatiche (sentenza 21/04/2005, in causa C-267/03).
Avviandosi verso una conclusione imposta dal tempo assegnato, si vuole da ultimo richiamare, in forma estremamente sintetica, una serie di temi, abbastanza “particolari” che negli ultimi anni hanno determinato sentenze della Corte rivelatesi decisive per la definizione di giudizi penali pendenti davanti alle giurisdizioni dei più diversi Paesi membri:
– violazioni in materia di tenuta dei cronotachigrafi nei veicoli adibiti al trasporto;
– vendita illegittima di abbonamenti a periodici;
– responsabilità penale dell’importatore connessa all’apposizione del marchio CE sui prodotti oggetto dell’importazione;
– vendita di farmaci e nozione di “farmaco” connessa alla legittimità di una riserva alla vendita in favore dei farmacisti;
– insider trading e legittimità o meno della comunicazione di dati sensibili da parte di dirigenti sindacali a beneficio di loro collaboratori;
– nozione di residenza e di domicilio connessa al diritto di godere di benefici economici per l’acquisto di beni immobili (fondo agricolo);
– nozione di residenza, domicilio e dimora connessa alla esecuzione facoltativa del mandato di arresto europeo.
Proprio questi ultimi due esempi mi offrono lo spunto per una considerazione di carattere generale che vuole rappresentare il vero e proprio “filo rosso” di uno sviluppo argomentativo che potrebbe essere apparso, ed in parte è, non del tutto organico.
Volevo infatti trasmettere a coloro che non siano particolarmente addentro nella materia comunitaria e, in particolare nelle sue ricadute di rilevanza penalistica, l’evidenza che un approccio serio è estremamente complesso. Principi di diritto comunitario utili per una soluzione alternativa di un caso nazionale, penale e non solo, che avrebbe certamente esito infausto sulla base della normativa statale, possono infatti ritrovarsi nelle più disparate pronunce rese dalla Corte oltre che, occorre sottolinearlo, nelle conclusioni degli Avvocati Generali che non raramente preconizzano sviluppi che andranno a realizzarsi in un futuro non lontano grazie anche all’intelligente lavoro degli avvocati e dei giudici nazionali.
È ovvio che la giurisprudenza è condizionata dal quadro normativo esistente ma è altrettanto ovvio, a mio avviso, che essa ne condiziona l’interpretazione evolutiva e la stessa modifica nel corso del tempo.
In questo senso i Trattati di Lisbona, per i profili che qui rilevano, sono anche il frutto della giurisprudenza della Corte e costituiscono la base per un nuovo impulso che sempre più ci avvicini a un diritto penale, sostanziale e processuale, armonizzato quale fondamentale contributo alla piena realizzazione dell’Europa del diritto.
[i] Sentenza della Corte di Giustizia del 10/03/2005, in causa C-469/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 17/03/2005, in causa C-128/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 21/04/2005, in causa C- 267/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 26/05/2005, in causa C-20/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 31/05/2005, in causa C-438/02; Sentenza della Corte di giustizia del 16/06/2005, in causa C-105/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 07/07/2005, in causa C-373/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 07/07/2005, in causa C-383/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 14/07/2005, in causa C- 435/03; Conclusioni dell’Avvocato Generale Poiares Maduro del 25/05/2005, in causa C-435/03; Sentenza della Corte di Giustizia del 08/09/2005, in causa C-40/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 06/10/2005, in causa C-9/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 22/11/2005, in causa C-384/02; Sentenza della Corte di Giustizia del 16/02/2006, in causa C-502/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 09/03/2006, in causa C-436/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 27/04/2006, in causa C-441/02; Sentenza della Corte di Giustizia del 28/09/2006, in causa C-434/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 28/09/2006, in causa C-467/04; Sentenza della Corte di Giustizia del 25/01/2007, in causa C-370/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 27/02/2007, in causa C-354/04 P; Sentenza della Corte di Giustizia del 27/02/2007, in causa C-355/04 P; Sentenza della Corte di Giustizia del 03/05/2007, in causa C-303/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 07/06/2007, in causa C-50/06; Sentenza della Corte di Giustizia del 21/06/2007, in causa C-259/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 28/06/2007, in causa C-467/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 18/07/2007, in causa C-288/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 18/07/2007, in causa C-367/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 15/11/2007, in causa C-330/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 29/11/2007, in causa C-112/07; Sentenza della Corte di Giustizia del 13/03/2008, in causa C-446/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 17/07/2008, in causa C-66/08; Sentenza della Corte di Giustizia del 01/12/2008, in causa C-388/08 PPU; Sentenza della Corte di Giustizia del 09/10/2008, in causa C-404/07; Sentenza della Corte di Giustizia del 20/11/2008, in causa C-1/07; Sentenza della Corte di Giustizia del 22/12/2008, in causa C-491/07; Sentenza della Corte di Giustizia del 19/02/2009, in causa C-321/07; Sentenza della Corte di Giustizia del 02/04/2009, in causa C-421/07; Sentenza della Corte di Giustizia del 02/04/2009, in causa C-139/08; Sentenza della Corte di Giustizia del 16/07/2009, in causa C-344/08; Sentenza della Corte di Giustizia del 06/10/2009, in causa C-123/08; Sentenza della Corte di Giustizia del 15/04/2010, in causa C-433/05; Sentenza della Corte di Giustizia del 29/06/2010, in causa C-550/09; Sentenza della Corte di Giustizia del 16/11/2010, in causa C-261/09.