Categorie: Diritto Penale

“End of waste”: l’evoluzione della nozione di materia prima secondaria.
Data: 17 Apr 2013
Autore: Serena Pagliosa

Premessa.

Il concetto di materia prima secondaria nasce per rispondere all’esigenza del legislatore di trovare un equilibrio tra la protezione dell’ambiente e il recupero dei materiali di scarto in modo tale da renderne possibile il reinserimento nel ciclo produttivo.

Così si esprime il legislatore comunitario definendo l’obiettivo della direttiva 2008/98/CE che, come vedremo nel prosieguo, si occupa di rifiuti, sottoprodotti e materie prime secondarie: “La presente direttiva dovrebbe aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una “società del riciclaggio”, cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare i rifiuti come risorse”.

E’ in tale contesto che sia la normativa comunitaria, sia quella nazionale, hanno previsto che, a determinate condizioni, una

sostanza qualificata come rifiuto che venga sottoposta ad una operazione di recupero potrà cessare di essere considerata tale (pertanto, sottratta alla disciplina dei rifiuti) e diverrà materia prima secondaria (m.p.s.).

Si tratta della cd “end of waste”, definizione che è frutto di una evoluzione avvenuta innanzitutto a livello europeo.

A tal proposito, è opportuno precisare che il punto di partenza di detta evoluzione è stato stabilire la differenza tra ciò che era rifiuto da ciò che rifiuto non era.

Quindi, quanto meno all’inizio, non vi è né a livello normativo, né a livello giurisprudenziale una linea di demarcazione netta tra rifiuto, sottoprodotto (ovvero quel materiale che non è mai stato rifiuto) e materia prima secondaria (ovvero quel materiale che non è rifiuto anche se un tempo lo è stato).

Come vedremo, è stato necessario aspettare l’emanazione della direttiva 2008/98/CE per avere finalmente un chiarimento in ordine a detti concetti.

  1. 1.      La “COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL CONSIGLIO E AL PARLAMENTO EUROPEO relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti” del 21.02.2007.

–     La Comunicazionedella Commissione delle Comunità Europee del 21.02.2007 “relativa alla Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti”, preso atto della mancanza di una definizione giuridica dei concetti di “sottoprodotto” e “materia prima secondaria” e della conseguente incertezza del diritto in ordine alla distinzione rifiuto/non rifiuto, ha dettato linee guida “che permettano di stabilire, caso per caso, se determinati materiali costituiscono rifiuti o meno” (pag. 3 della Comunicazione).

Tali linee guida hanno come punto di partenza la definizione di rifiuto contenuta nella direttiva 2006/12/CE (direttiva quadro in materia di rifiuti, abrogata e sostituita dalla direttiva 2008/98/CE) della qualela Commissioneha fornito una interpretazione elaborata sulla base delle pronunce più significative della Corte di Giustizia nel frattempo intervenute in materia.

Va sottolineato chela Commissionesi è occupata della differenza rifiuto/non-rifiuto e, più in particolare, di quella rifiuto/sottoprodotto, senza specificare la nozione di materia prima secondaria.

In ogni caso, si ritiene utile un accenno a detto provvedimento in quanto in esso sono contenute le basi per comprendere cosa si intende per rifiuto e, quindi, per capire poi quando e perché un materiale cessa di essere considerato tale.

–     Preliminarmente all’analisi dei criteri che consentono di distinguere un rifiuto da ciò che rifiuto non è (distinzione articolata sulla nozione di “disfarsi” contenuta nella direttiva 2006/12/CE), la Commissione ha fatto un’ importantissime premessa: “sono le circostanze specifiche a fare di un materiale un rifiuto o meno e che pertanto le autorità competenti devono decidere caso per caso”.

Di conseguenza, nel momento in cui occorre stabilire se un materiale costituisce un rifiuto, è necessario domandarsi: il fabbricante ha deliberatamente scelto di produrlo?

Se la risposta è affermativa, si avrà un “prodotto”.

In caso contrario, avremo un “residuo di produzione” che, a sua volta, potrà essere un “rifiuto” oppure un “sottoprodotto”.

–     Di tal che,la Comunicazioneha elencato i criteri utili per differenziare un rifiuto da un non-rifiuto. I due principali sono i seguenti:

  1. innanzitutto il riutilizzo del materiale deve essere certo.

Quindi, un materiale che “non sia di fatto utilizzabile, che non possieda i requisiti tecnici per il suo utilizzo o se non esiste mercato, si deve continuare a considerarlo rifiuto” mentre cesserà di essere tale “non appena sarà pronto ad essere riutilizzato come prodotto recuperato” (pag. 7 della Comunicazione).

A tal proposito la giurisprudenza della Corte di Giustizia richiamata dalla stessa Comunicazione ha anche stabilito che l’esistenza di contratti tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi è indice del fatto che “il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del suo utilizzo” (pag. 7 della Comunicazione).

Altro elemento che, sempre secondo la Cortedi Giustizia, è indice del fatto che avvenga un riutilizzo è il fatto che “un fabbricante possa vendere un determinato materiale ricavandone un profitto” (pag. 8 della Comunicazione).

  1. Il materiale è riutilizzato senza che venga previamente trasformato oppure è riutilizzato a seguito di una trasformazione che avviene nel corso del processo di produzione.

Poiché il materiale è spesso oggetto di operazioni che sono necessarie a renderlo riutilizzabile (così ha scritto testualmente la Commissionea pag. 8 della comunicazione: “dopo la produzione, esso può essere lavato, seccato, raffinato o omogeneizzato, lo si può dotare di caratteristiche particolari o aggiungervi altre sostanze necessarie al riutilizzo, può essere oggetto di controlli di qualità ecc…”) e che tali operazioni possono avvenire presso il fabbricante o l’utilizzatore o intermediari,la Commissione ha stabilito che, in ogni caso, ciò che rileva per poterlo qualificare come sottoprodotto e non come rifiuto non è tanto il luogo o il soggetto che effettua la trasformazione ma il fatto che la stessa avvenga nel corso del processo di produzione; ciò che verrà stabilito dalle autorità competenti caso per caso.

–     Dopo di ché, la Commissioneha elencato gli “Altri elementi presi in considerazione dalla Corte per distinguere tra rifiuti e sottoprodotti” (punto 3.4. della Comunicazione), descrivendo i criteri chela Corte di Giustizia ha utilizzato per distinguere un rifiuto da ciò che rifiuto non è nei diversi casi pratici che gli sono stati sottoposti.

Si tratta dei seguenti elementi che, come specificato dalla Commissione, sono solamente indizianti della qualifica di rifiuto e vanno interpretati alla luce del contesto a cui si riferiscono ovvero il caso concreto sul qualela Cortedi Giustizia ha deciso:

–      “L’unico utilizzo possibile è lo smaltimento”.

–      “L’utilizzo del materiale ha un forte impatto ambientale o richiede misure di protezione particolari”.

–      “Il metodo di trattamento del materiale è un metodo di trattamento standard dei rifiuti”.

–      “Il materiale è percepito dall’azienda come rifiuto”.

–      “L’azienda cerca di ridurre la quantità di materiale prodotto”.

I criteri sopra menzionati saranno utilizzati anche per la qualificazione di un materiale come m.p.s..

 

  1. 3.      La “DIRETTIVA 2008/98/CE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 19.11.2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”.

 

–     Atto fondamentale in materia ambientale è stato la direttiva 2008/98/CE del 19.11.2008 il cui fine è perfettamente sintetizzato al “considerando” 28 della stessa: ““La presente direttiva dovrebbe aiutare l’Unione europea ad avvicinarsi a una “società del riciclaggio”, cercando di evitare la produzione di rifiuti e di utilizzare i rifiuti come risorse”.

Detta direttiva si è preoccupata di differenziare i rifiuti dai sottoprodotti e di definire le condizioni che consentono ad un rifiuto di perdere tale qualifica, evidenziando la differenza che vi è tra “sottoprodotti che non sono rifiuti” (ovvero materiali che non sono mai stati rifiuti) e “rifiuti che cessano di essere tali” (considerando 22 della direttiva).

Di tal che, l’art. 3 è dedicato alle “Definizioni” tra le quali quella di “rifiuto” (ovvero “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”) e l’art. 5 descrive che cosa sono i “sottoprodotti”, richiamando i concetti elaborati dalla Commissione nella Comunicazione 21.02.2007.

–   Ai fini che ci interessano, disposizione fondamentale della direttiva in esame è l’art. 6 intitolato “Cessazione della qualifica di rifiuto” che descrive i requisiti che permettono ad un rifiuto di perdere detta qualità e che consentono di configurare la c.d. materia prima secondaria (m.p.s.).

Così stabilisce testualmente il comma 1 dell’art. 6:

“1. Taluni rifiuti specifici cessano di essere tali ai sensi dell’articolo 3, punto 1, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni:

a)            la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici;

b)            esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;

c)             la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; e

d)            l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto.”

La direttiva ha quindi “codificato” la nozione di materia prima secondaria rielaborando i concetti già espressi dalla normativa e dalla giurisprudenza europea, al fine di creare una definizione unitaria che venga applicata uniformemente in tutti gli Stati membri.

Gli organi nazionali, quindi, sulla base delle quattro condizioni sopra elencate e di “criteri specifici” la cui elaborazione viene affidata dalla stessa direttiva alla Commissione (art. 6 co. 2), dovranno decidere caso per caso se un rifiuto ha cessato di essere tale per divenire m.p.s..

–     Prima di esaminare le condizioni di cui alle lettere a), b), c) e d) sopra elencate, merita un breve approfondimento la prima parte del comma 1 dell’art. 6 che stabilisce che alcuni rifiuti cessano di essere tali “quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio…”, con particolare riferimento alla nozione di “operazioni di recupero”.

La direttiva in esame ha voluto dare una interpretazione ampia di “recupero” che comprende sia il riciclaggio, sia la “preparazione per il riutilizzo”.

  • Quanto al “riciclaggio”, l’art. 6 prevede espressamente il suo inserimento fra le operazioni di recupero e l’art. 3, paragrafo 17, ne fornisce una definizione: “qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il ritrattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento”.

In questo modo la nozione di riciclaggio viene ampliata e lo stesso diventa una operazione che non è più costituita dalla sola e semplice reintroduzione del materiale nel ciclo produttivo di provenienza (si pensi ai residui di vetri nelle vetrerie), ma comprende altresì veri e propri trattamenti che incidono sull’identità del materiale (si veda il riferimento al fatto che “i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti”).

  • Fra le operazioni di recupero è annoverata anche la “preparazione per il riutilizzo” che è una attività che comprende “operazioni di controllo, pulizia e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento” (art. 3, paragrafo 16).

Quindi, anche la preparazione intesa come semplice controllo del rifiuto è sufficiente a trasformare lo stesso in prodotto che, poi, verrà riutilizzato/reimpiegato.

Detta tesi è suffragata anche dal “considerando” n. 22 della direttiva in esame che testualmente afferma: “Per la cessazione della qualifica di rifiuto, l’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfino i criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale”.

–     Passiamo ad analizzare le quattro condizioni elencate alle lettere a), b), c) e d).

Quanto alla condizione di cui alla lettera a), viene richiesto che la sostanza venga impiegata e, quindi, che non sia oggetto di smaltimento o abbandono.

Quanto alla condizione di cui alla lettera b), la sua previsione implica che la sostanza sia utilizzata non solo dal suo produttore ma che venga dallo stesso ceduta a terzi.

Quanto alle condizioni di cui alle lettere c) e d), le stesse richiamano la giurisprudenza della Corte di Giustizia laddove richiede che le m.p.s. possiedano requisiti merceologici tali da garantire una adeguata tutela della salute e dell’ambiente.

Si tratta delle condizioni che presentano maggiori problemi applicativi essendo demandato agli organi tecnici il compito di stabilire, per ogni categoria di sostanza, gli standard tecnici e merceologici che devono avere le sostanze ed essendo la nozione di “impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana” tutt’altro che di facile interpretazione.

–     Quanto ai “criteri specifici” a cui fa riferimento il comma 1 dell’art. 6 della direttiva in esame, la loro adozione, che è fondamentale per dare un senso concreto alle quattro condizioni sopra menzionate, è affidata alla Commissione ma è altresì previsto dal comma 4 dello stesso art. 6 che, qualora detti criteri non siano stabiliti a livello comunitario, saranno gli Stati membri a decidere, caso per caso, e tenuta in considerazione la giurisprudenza formatasi in materia, se un rifiuto ha cessato di essere tale per divenire m.p.s..

–     Va anche segnalato che la direttiva, all’art. 6 comma 2, haindividuato alcune categorie di rifiuti per le quali viene suggerita l’adozione di criteri volti a stabilire il momento in cui il materiale cessa di essere rifiuto. Si tratta degli aggregati, dei rifiuti di carta e vetro, dei metalli, dei pneumatici e dei rifiuti tessili. Con riferimento ai metalli, per esempio, il legislatore comunitario è recentemente intervenuto con il Regolamento UE n. 333/2011 del Consiglio del 31.03.2011 “recante i criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio”.

 

  1. 4.      L’art. 184 ter (“Cessazione della qualifica di rifiuto”) del D.Lvo n. 152/2006 introdotto con il D.Lvo n. 205/2010.

 

–     La direttiva 2008/98/CE è stata recepita nell’ordinamento italiano dal D.Lvo. n. 205/2010 che, a sua volta, ha modificato il D.Lvo n. 152/2006.

In particolare, il nuovo decreto ha abrogato il vecchio art. 181 bis (che già si occupava di m.p.s.) e ha previsto l’art. 184 ter intitolato “Cessazione della qualifica di rifiuto” (da “End of waste”, che è definizione che richiama il fatto che si tratta di un materiale che “è stato rifiuto”), che ricalca l’art. 6 della direttiva 2008/98/CE e che, analogamente a detto articolo, contiene la definizione di materia prima secondaria.

Così ha disposto l’art. 184 ter:

“1. Un rifiuto cessa di essere tale, quando è sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:

a)     la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;

b)     esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;

c)      la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;

d)     l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

2.L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza e dell’oggetto.

3.Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9-bis, lett. a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210. La circolare del Ministero dell’ambiente 28 giugno 1999, prot. n. 3402/V/MIN si applica fino a sei mesi dall’entrata in vigore della presente disposizione.

4.Un rifiuto che cessa di essere tale ai sensi e per gli effetti del presente articolo è da computarsi ai fini del calcolo del raggiungimento degli obiettivi di recupero e riciclaggio stabiliti dal presente decreto, dal decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 209, dal decreto legislativo 25 luglio 2005, n. 151, e dal decreto legislativo 20 novembre 2008, n. 188, ovvero agli atti di recepimento di ulteriori normative comunitarie, qualora e a condizione che siano soddisfatti i requisiti in materia di riciclaggio o recupero in essi stabiliti.

5.La disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino alla cessazione della qualifica di rifiuto.”

L’articolo 184 ter ha ripreso in modo preciso i contenuti della direttiva 2008/98/CE richiamando, da un lato, un concetto di recupero da intendersi in senso ampio e, dall’altro, una nozione di “criteri specifici” che dovrà essere adottata alle stesse condizioni previste dal legislatore europeo (le lettere a), b), c) e d) di cui al c. 1 dell’art. 184 ter sono la trasposizione delle lettere a), b), c) e d) del c. 1 dell’art. 6 della direttiva).

Inoltre, anche il legislatore italiano, così come quello comunitario, ha rinviato ad una successiva disciplina la definizione dei sopra detti criteri specifici sulla base dei quali si potrà decidere se un determinato materiale ha cessato di essere rifiuto. Criteri che verranno stabiliti in sede comunitaria o, nel caso di inerzia degli organi comunitari, da decreti ministeriali interni. In ogni caso, nelle more dell’adozione di detta regolamentazione, si applicheranno in via transitoria i decreti di cui al comma 3 dell’art. 184 ter.

–     Vale la pena sottolineare come il legislatore italiano, riscrivendo il nuovo art. 184 ter, abbia abbandonato la vecchia nozione di m.p.s. prevista dall’abrogato art. 181 bis.

A tal proposito, è utile richiamare il contenuto del vecchio articolo in modo tale da comprendere quali siano state le modifiche sostanziali intervenute.

Così disponeva il primo comma dell’art. 181 bis del D.Lvo n. 152/2006:

Non rientrano nella definizione di cui all’art. 183, comma 1, lettera a), le materie e i prodotti secondari definiti con decreto ministeriale di cui al comma 2, nel rispetto dei seguenti criteri, requisiti e condizioni:

a)   siano prodotti da un’operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti;

b)   siano individuate la provenienza, la tipologia e le caratteristiche dei rifiuti dai quali si possono produrre;

c)   siano individuate le operazioni di riutilizzo, di riciclo o di recupero che le producono, con particolare riferimento alle modalità ed alle condizioni di esercizio delle stesse;

d)   siano precisati i criteri di qualità ambientale, i requisiti merceologici e le altre condizioni necessarie per l’immissione in commercio, quali norme e standard tecnici richiesti per l’utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all’ambiente e alla salute derivanti dall’utilizzo o dal trasporto del materiale, della sostanza o del prodotto secondario;

e)      abbiano un effettivo valore economico di scambio sul mercato.”

Tra le modifiche, ha fatto discutere quella inerente il requisito di cui al comma e) del vecchio art. 181 bis in base al quale un materiale, per essere qualificato m.p.s., doveva avere un valore economico. Requisito che è scomparso con la nuova formulazione di cui all’art. 184 ter.

Il legislatore nazionale del 2010, infatti, in conformità alle scelte operate a livello comunitario, ha richiesto che il materiale abbia uno scopo specifico e che esista per esso una domanda o un mercato; a nulla rilevando il suo valore economico.

La lettera della norma è chiara e non parrebbe aver bisogno di alcuna ulteriore interpretazione ma, di fatto, si è riscontrata qualche resistenza a far entrare il sopra menzionato concetto nel nostro ordinamento giuridico. Tanto è che sul punto è stata chiamata a pronunciarsila Suprema Cortedi Cassazione (Cass. Pen. Sez. III, n. 24427 del 17.06.2011) che ha ribadito che perché un rifiuto cessi di essere tale non è necessario che lo stesso possegga un valore economico intrinseco.

In particolare, l’intervento della Corte è stato richiesto in merito ad una ordinanza del Tribunale di Taranto in funzione di giudice del riesame che aveva confermato il sequestro preventivo di sei container contenenti materiali tessili sul presupposto che gli stessi costituissero rifiuti speciali non pericolosi e non mps come sostenuto dall’indagato (che, quindi, avrebbe dovuto rispondere dei reati di cui agli artt. 259 co. 1 e 260 co. 1 DLvo 152/2006 e 483 c.p.) in quanto, tra l’altro, “di valore nullo o irrisorio”.

I giudici del Supremo Collegio non hanno potuto che affermare che il “requisito del valore economico era richiesto dall’abrogato art. 181 bis, comma 1 lett. e), mentre il vigente art. 184 ter, comma 1, lett. b), richiede solo che vi sia “un mercato o una domanda per tale sostanza o oggetto” e, pertanto, hanno stabilito che l’ordinanza dovesse “essere annullata con rinvio per un nuovo esame che tenga conto delle innovazioni normative introdotte dal citato decreto legislativo in materia ambientale”.

–     Come emerge da quanto sopra, l’attuale 184 ter è il risultato di una evoluzione normativa e giurisprudenziale che, ancor oggi, non può considerarsi conclusa, essendo fondamentale il ruolo delle autorità competenti chiamate a decidere caso per caso in applicazione dei principi espressi sia a livello nazionale che comunitario. Senza poi dimenticare l’importanza dei “criteri specifici” di competenza della Commissione o, in subordine, del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare che dovrà intervenire con appositi decreti attuativi.

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