L’applicazione dell’ici (imu dal 2012) sui beni del demanio marittimo è aspramente avversata dagli operatori portuali di tutta Italia. Ne è prova il fatto che, da qualche anno, la battaglia dei terminalisti tiene banco nelle Commissioni tributarie. Nodo del contendere è il seguente: le aree in concessione per le operazioni d’imbarco/sbarco delle merci soggiacciono al tributo comunale? La risposta, in teoria, è semplice: no, recita la disciplina ici (adottata tout court da quella imu), se a Catasto esse risultano inquadrate nel gruppo “E”. Semplice direte voi. E invece non è proprio così.

Il problema, infatti, è che, proprio sui criteri d’individuazione di questa “particolare” categoria catastale (“E”), si addensano incertezze stratificate nel tempo. Ciò per il fatto che, l’esemplificazione del legislatore del ’39 (secondo cui, in particolare, rientrano in “E/1” le “stazioni per servizi di trasporto marittimi”), è stata progressivamente “manipolata” dagli Uffici. Grazie alla finanziaria per il2007, l’Agenzia del territorio ha potuto addirittura codificare le proprie istruzioni “interne”, imponendole in un regolamento alla cui osservanza tutti, ancora attualmente, sono tenuti. Con il risultato che, stando al decreto del direttore del Territorio, l’attribuzione del gruppo “E/1” e, quindi l’esenzione da imu competerebbe alle sole unità immobiliari strumentali all’espletamento di un’attività qualificabile come “servizio pubblico”. Criterio quest’ultimo che, irragionevolmente, taglia fuori dall’esenzione i terminal “merci”, a vantaggio dei terminal “passeggeri” (i soli, infatti, che oggi possano vantare l’espletamento di un servizio pubblico di trasporto).

Dal 2009, prima l’Agenzia delle entrate e, poi, il Ministero dei trasporti, sono scesi in campo in favore dei terminalisti, affermando che le aree del demanio marittimo, purché asservite allo svolgimento di operazioni “strettamente necessarie alle attività portuali” e ai “traffici marittimi”, devono essere accatastate nella categoria “E”; il tutto con conseguente esenzione da ici (imu) di tali aree. Tuttavia né l’Agenzia del territorio né, soprattutto, i Comuni interessati, hanno mutato atteggiamento. Una svolta inaspettata potrebbe, forse, arrivare dalla recente fusione (con effetto dal 1.12.12) dell’Agenzia del territorio nell’ Agenzia delle entrate. Ma è altrettanto probabile che quest’ultima, prima di ordinare al “nuovo” organico di accatastare in “E/1” le aree in questione, attenderà l’eventuale affermarsi di un consolidato orientamento giurisprudenziale sfavorevole.

A tale proposito va detto che i magistrati tributari si sono sinora pronunciati in ordine sparso a favore e a sfavore dei contribuenti ma, soprattutto, hanno deciso sulla scorta di argomentazioni tutto fuor che univoche. Nel foro di Genova, invece, le Commissioni tributarie, pur dopo alcune iniziali incertezze, hanno elaborato un format decisionale costante. In sintesi, per i magistrati genovesi l’ici (imu) è dovuta soltanto sulle “aree coperte”, ossia occupate da fabbricati.

Per capire questa soluzione “salomonica” – e che, comunque, appare “fuori tema” rispetto all’inquadramento del problema “catastale” sopra illustrato – occorre fare un passo indietro. Quando nel resto della Penisola ancora si discutevano le modalità di accatastamento dei beni del demanio marittimo (del tutto prive di una disciplina di riferimento), con i conseguenti riflessi anche sul piano ici, nel porto della Lanterna il problema veniva risolto “per le vie brevi”. Ed infatti nel 2002, fra l’Autorità portuale (in allora retta dall’avv. Giuliano Gallanti), “proprietaria” delle aree portuali, e il Comune, venne siglato un accordo per consentire, nelle more del censimento (ad oggi ancora in corso), di iniziare ad applicare l’imposta comunale. A tale scopo l’Ente locale s’impegnò a cofinanziare l’incarico, conferito dall’Ap all’Agenzia del territorio, di periziare le concessioni in essere. La stima evidenziò – a seconda del tipo di area (“coperta” o “scoperta”) – un valore a metro quadrato. I concessionari vennero, in tale modo, informati che, sino all’accatastamento e, quindi, sino all’attribuzione della correlativa rendita, il tributo avrebbe dovuto esser corrisposto “in acconto”, sulla scorta di tali “estimi”. Il Comune, ovviamente, non si preoccupò di verificare che le aree portuali di che trattasi, potessero esser accatastate nel gruppo “E” (con correlativa esenzione da ici). Più gravemente di ciò non si curò neppure l’Autorità portuale. Quest’ultima, del resto, in alcuni casi, è riuscìta persino ad avviare l’accatastamento nella categoria espressamente riservata ai siti industriali in genere (non “E”, quindi) – a totale insaputa del concessionario – seguendo la procedura (di dubbia applicabilità per i beni “pubblici”) autodichiarativa (cd. “docfa”). E ciò con il risultato di esporre il malcapitato terminalista (VTE, ad esempio) agli effetti di un accatastamento intangibile e, comunque, pregiudizievole e ai fini ici (imu).

Tanto premesso dovrebbe, ora, comprendersi meglio perché, sul fronte genovese, il criterio per stabilire la debenza dell’ici sulle aree portuali risulti (di regola) scollegato dall’inquadramento catastale del sito, concentrandosi piuttosto sul fatto che si tratti di un’area coperta o scoperta. Del resto, la peculiarità dei contenziosi liguri sta nel fatto che gli avvisi ici sono stati (quasi sempre) spiccati in assenza di qualsiasi determinazione catastale.

L’ultima delle pronunce pubblicate (la n. 4/283/2012 del 4 ottobre 2012) – relativa all’ici sul porto petrolifero di Genova Multedo – conferma un trend che ormai, può dirsi consolidato nel foro ligure: sulle aree scoperte, ossia piazzali, banchine (etc.), l’ici (imu) non è dovuta (con buona pace dell’opposta tesi del Comune). Tuttavia tale approccio risolve in modo sbrigativo (e pregiudizialmente sfavorevole) delle aree coperte, ritenute invariabilmente soggette al tributo comunale.

La Porto Petroliha provato a contrastare conclusione eccependo la radicale illegittimità del procedimento sul quale il Comune ha fondato la pretesa impositiva: ci si riferisce al patto stretto fra Comune e Autorità portuale. Motivo del tutto fondato, considerato che la procedura in questione non risulta consentita né dalla disciplina catastale e neppure da quella ici (e ora imu). Purtroppola Commissione, anziché condividere l’eccezione e annullare l’accertamento, l’ha respinta rilevando che per le precedenti annualità il versamento era stato eseguito su tali basi, senza muovere contestazioni di sorta.

A questo punto, dopo aver illustrato il peccato originale che è ad un tempo causa e vizio dell’ici riscossa nel porto della Superba, pare giusto dare conto del fatto che l’Autorità portuale di Genova sta cercando di rimediare agli effetti negativi del passato “inciucio”. L’attuale presidente, infatti, alla guida di Assoporti, fra gli emendamenti alla riforma dell’ordinamento portuale (l. n. 84/94), ha addirittura, proposto che gli atti impostivi o sanzionatori relativi all’applicazione dell’ici sulle aree e le banchine demaniali marittime dei porti, “perdano efficacia”. Quale miglior regalo di natale per i nostri terminalisti? Peccato, però che la proposta (senz’altro migliorabile sul piano tecnico), la quale, se accolta, comporterebbe una contrazione del gettito (imu) futuro e una rinuncia a quello (ici) passato, con correlativi oneri restitutori, visti i tempi, ben difficilmente andrà in porto.

Non tutto, però, è perduto. Gli operatori dovrebbero comunque richiedere la rimozione degli effetti “fiscali” dell’accordo Comune/Autorità portuale e, comunque, concentrarsi sull’identificazione catastale delle aree in concessione, domandandone, se già avvenuta (con esito sfavorevole), la revisione.