Categorie: Diritto Tributario

La “231” si applica anche ai reati fiscali?
Data: 16 Apr 2013
Autore: Avv. Nicolò Raggi

Intendo, anzitutto, ringraziare, anche a nome dello Studio Conte & Giacomini – di cui sono of counsel per la materia tributaria – il collega Santi di Paola. La sua relazione – intesa a investigare l’applicabilità del d.lgs. n. 231 del 2001 (“231”), quando il reato ascritto all’ente non risulti ricompreso nell’apposito elenco (artt. 24 e ss. 231) – è ricca di interessanti spunti. In particolare ho molto apprezzato la tesi secondo cui, pur nell’impossibilità di applicare tout court la disciplina231 in campo tributario, alcuni dei principi cardine di quest’ultima risultano, di fatto, funzionanti anche quando il reato compiuto dall’ente sia punito dal decreto sui crimini fiscali (d.lgs. n. 74 del 2000). E’ su questo argomento, quindi, che vorrei concentrare il mio breve intervento alla tavola rotonda di oggi. In proposito comincerei col dire che, il principale obbiettivo della 231 – che è quello di “configurare un sistema di responsabilizzazione dell’ente” e prevenire il fenomeno delle cosiddette “teste di paglia” – è già insito nel sistema sanzionatorio tributario (decreti legislativi n. 471 e 472 del 1997).     Con la legge finanziaria per il 2003, infatti, è stato previsto che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica” (v. art. 7, 1° comma, d.l. 30 settembre 2003, n. 269). Quanto agli enti senza personalità giuridica, la responsabilità di questi ultimi è, comunque, coinvolta, anche se su di un piano “concorrente” con quella di chi ne è l’organo, oppure anche soltanto semplice dipendente (v. art. 11, 1° comma, d.lgs. n. 472 del 1997).   In buona sostanza, quindi, il sistema sanzionatorio tributario prevede un ambito di applicazione equiparabile a quello previsto dalla 231. Arafforzare il delineato parallelismo fra il sistema sanzionatorio tributario e la 231, è il decreto sui delitti fiscali, nella parte in cui prevede che la condanna per un reato fiscale lascia impregiudicata l’irrogazione delle sanzioni amministrative nei confronti di tutti gli enti (con o senza personalità giuridica  – v. art. 19, 2° comma, d.lgs. n. 74 del 2000).  Mi concede, al riguardo, una breve parentesi. Quest’ultima disposizione è stata molto criticata da autorevole dottrina (Ivo Caraccioli e Gasparre Falsitta). Con essa, infatti, il Governo, non soltanto ha reintrodotto – debordando dalla delega ricevuta (art. 3, comma 133, lett. e), della legge n. 662 del 1996) – il previgente principio del cumulo fra sanzioni penali e amministrative tributarie (art.10 l. n. 429 del 1982), ma lo ha fatto a svantaggio dei soli enti. Tutto ciò con il risultato che, mentre le persone fisiche, ancorché grandi evasori, sfuggono per legge alla doppia pena (penale e amministrativa), vi incappano regolarmente tutti gli enti. Si assiste così a un’evidente disparità di trattamento fra contribuenti persone fisiche (magari grandi evasori) e giuridiche (magari piccole società). Largo, quindi, alle eccezioni d’incostituzionalità della norma, per violazione della legge delega (art. 77 Cost.) e/o del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). Tornando all’oggetto del mio intervento e, quindi, alle similitudini fra la 231 e il vigente sistema sanzionatorio tributario, rilevo con piacere come al collega di Paola non sia sfuggito che, in entrambi casi, gli effetti della confisca per equivalente si riverberano nella sfera degli enti. Mi sembra opportuno, al riguardo, fare qualche precisazione. Nel caso della 231 l’applicazione della confisca, anche per equivalente, sui beni sociali avviene in forza di specifiche disposizioni normative. Valga, per tutte, quanto previsto dall’art. 19, secondo cui “nei confronti dell’ente” è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca (anche) per equivalente del prezzo o del profitto del reato. Nel sistema sanzionatorio tributario, invece, l’applicazione dell’istituto della confisca per equivalente a carico dell’ente, poggia su di un cavillo interpretativo. La giurisprudenza penale, infatti, nel silenzio sul punto della disposizione che ha esteso la confisca per equivalente alla materia tributaria (ossia l’art. 1, comma 143, della l. n. 244 del 2007), si è ritagliata l’autorità ad aggredire il patrimonio degli enti facendo leva sulla norma penale qui richiamata (ossi l’art. 322-ter c.p.). In buona sostanza i magistrati, per traguardare il risultato, lo hanno estrapolato dalla clausola dell’art. 322-ter che preclude la confisca sui beni “che appartengono a persona estranea al reato”. Ebbene, che l’ente non sia persona “estranea” al reato, lo si evince dal rapporto organico che la lega ai suoi amministratori. Ne consegue quindi che, perlomeno nel caso di reati fiscali per i quali risultino imputabili gli amministratori (anche di fatto), la confisca per equivalente in danno dell’ente è senz’altro ammissibile (si veda, in questo senso, per reati penal tributari, Cass. 16 novembre 2011, il gip di Milano 18 ottobre 2011, nell’ormai celebre caso “Brontos”, dove il banchiere Alessandro Profumo è stato rinviato a giudizio). Non è, quindi, possibile difendere la società adducendo che la confisca per equivalente presupporrebbe l’applicabilità della 231 anche a seguito della commissione di reati fiscali (in questo senso si è espressa Cass. 19 luglio 2011, Coop. Burlando). Anche qui effettuo una seconda breve divagazione. L’applicazione dell’istituto della confisca per equivalente in campo tributario ha condotto, nella pratica, a rilevanti distorsioni applicative. Accade infatti di frequente che i contribuenti/imputati, ancor prima che conla Procuradella Repubblica, si decidano (incentivati dai forti sconti sulle sanzioni amministrative), a regolare i conti con l’Agenzia delle entrate. In assenza di qualsiasi coordinamento normativo fra l’esito del procedimento deflattivo tributario (ad esempio il classico “accertamento” con adesione) e il procedimento penale, può succedere che il p.m. disponga un sequestro preventivo in funzione della successiva confisca per equivalente, non ostante Fisco e contribuente abbiano già stretto un accordo. Si tratta di una prassi giudiziaria che, purtroppo diffusasi in talune corti di merito (ad esempio a Genova), ha però incontrato la recente ferma censura della Cassazione penale. Con una pronuncia del 2011, confermata nel febbraio di quest’anno, il Supremo consesso ha, infatti, affermato: “che la restituzione all’erario del profitto derivante dal reato elimina in radice lo stesso oggetto sul quale dovrebbe incidere la confisca. In caso contrario si avrebbe un’inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio che l’espropriazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al profitto derivante dal reato” (v. Cass. pen. 11 marzo 2011, n. 10120, P.G.; in senso conforme v. Cass. pen. 8 febbraio 2012, n. 4956, DPS s.r.l.). Mutatis mutandis, naturalmente, tale principio opera anche nel caso simmetrico (a quello appena descritto) in cui, la vicenda penale si concluda prima ancora che l’Agenzia delle entrate abbia definitivamente estrinsecato la propria pretesa. Si pensi al caso in cui la denuncia penale per reato d’infedele dichiarazione verbalizzata dalla Guardia di finanza, venga fatta oggetto di patteggiamento. Come noto, l’accesso al rito abbreviato comporta obbligatoriamente il sequestro preventivo per equivalente delle imposte evase (v. art. 322-ter c.p.). Quid juris, quindi, se l’atto impostivo successivamente notificato dall’Agenzia delle entrate dovesse contenere una reiterazione della pretesa già oggetto di ablazione attraverso la confisca? Si ritiene, sulla scorta di quanto argomentato dalla Cassazione, nulla sia dovuto al Fisco, in quanto già materialmente appreso all’esito del patteggiamento. A livello teorico le riferite soluzioni poggiano sulla natura “poliedrica” (ossia anche, ma non solo, “sanzionatoria”) della confisca per equivalente. Ove, infatti, ci si arrocchi sulla natura esclusivamente “sanzionatoria” della confisca per equivalente (caratteristica che, comunque, si è rivelata esiziale quando si è trattato di impedire l’applicazione retroattiva dell’istituto ai reati tributari – v. Cass. 19 luglio 2011, n. 28731, Cooperativa Burlando a r.l.), si rischia di scivolare nella conclusione (censurata dai giudici di legittimità nel citato caso genovese) secondo cui non hanno rilievo le vicende successive alla commissione dell’infrazione (e quindi, appunto, non ha rilevanza l’intervenuto assolvimento del debito tributario) (così invece, ha stabilito il Tribunale del riesame  Genova, III sezione penale, 11 aprile 2012, Ecosider). Si tratta, insomma di una confisca, la cui valenza rassomiglia in modo evidente a quella che la 231 prevede sia disposta “anche nell’ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilità per aver validamente adottato e attuato i modelli organizzativi (compliance programs) previsti (così Cass. sez. un. 27 marzo 2008, n. 26654)”.  In altre parole ancora – le stesse usate dalla Cassazione – si tratta di una confisca la cui finalità, priva di scopo sanzionatorio, è (anche) quella di “ristabilire l’equilibrio economico alterato da (…) un profitto geneticamente illecito” (così Cass. sez. un. 27 marzo 2008, n. 26654). Una volta passate in rassegna le principali analogie fra la 231 e il sistema sanzionatorio tributario, intendo concludere il mio intervento, evidenziando, in particolare, un tratto distintivo proprio della disciplina fiscale, almeno sino ad oggi, ha impedito il progressivo allargamento della legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. Mi riferisco al fatto che, mentre l’irrogazione della sanzione avviene per mano e sotto il controllo della magistratura penale, le sanzioni tributarie sono, invece, comminate dall’Agenzia delle entrate e soltanto eventualmente – in caso di ricorso – sottoposto al vaglio di un giudice  che risulta – per questo specifico aspetto – senza dubbio meno qualificato: le commissioni tributarie. Le sanzioni, insomma, che, come noto, raddoppiano la pretesa, sono un piatto troppo ricco perché l’Agenzia se ne lasci sfilare il controllo dalle mani. Di qui il mio scetticismo sulla possibilità che la 231 sia estesa anche ai reati fiscali. Con ciò, però, non voglio dire che non sia auspicabile che il sistema 231 sia esteso anche alla materia tributaria. Ed infatti, è vero che, sulle prime, scorrendo la 231 si può ricevere l’impressione che essa contenga una disciplina più severa. Questo, essenzialmente, perché, si prevede che la responsabilità dell’ente sussista anche quando “l’autore del reato non è identificabile o non è imputabile” (v. art. 8). Per contro, ad una indagine più approfondita non può sfuggire che, nel sistema sanzionatorio tributario, la responsabilità dell’ente – una volta accertata la colpevolezza della persona fisica (dipendente o amministratore) che ne è l’autore – viene a configurarsi in modo automatico. Non vi è insomma alcuna possibilità per l’ente di “scagionarsi” provando di aver adottato un modello organizzativo idoneo. Oggi, quindi, accade che, nel classico caso del dipendente infedele che, invece di versare al Fisco quanto dovuto dall’ente, trattenga per sé la somma, alla società non resta che subire inerme le pene ineluttabili previste dal legislatore fiscale. Per non dire del reintrodotto cumulo fra sanzioni penali e amministrative di cui si è poco fa accennato. Quelli appena enucleati sono tratti del sistema punitivo tributario, senz’altro ingiusti e, comunque,  configgenti con i precetti costituzionali. Concludo con un auspicio: che, ove la materia tributaria dovesse continuare a restare fuori dell’ambito di applicazione della 231, frustrando le aspettative della dottrina e del relatore che mi ha preceduto, spero che le più evidenti distorsioni dei meccanismi sanzionatori tributari, vengano eliminate, in nome dell’equità e della Costituzione.

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