The environmental issue has always been influenced by the European Union Law. In order to completely understand the concepts of “waste” and “by-product”, is very useful to consider the approach adopted in this topic by the European Court of Justice and subsequently by the European Commission.
Un caso seguito dal nostro Studio in materia di reati ambientali transazionali è stato l’occasione per approfondire il rapporto tra la materia ambientale ed il diritto UE.
- E’ noto, infatti, che la materia ambientale è di stretta derivazione comunitaria e che la normativa nazionale in tale ambito nasce e si evolve coerentemente al contenuto di Regolamenti e Direttive europee, cui si aggiungono numerosi atti di diritto derivato della Commissione, tra i quali, come si vedrà, Comunicazioni della medesima a Consiglio e Parlamento Europeo, nonché Decisioni di Esecuzione relative a norme di diritto primario.
E’ sufficiente leggere la parte introduttiva al D. Lgs. n. 152/2006 (Testo Unico Ambientale) per prendere atto di questo dato.
E’ agevole constatare, d’altronde, che la materia ambientale è stata oggetto di numerosissimi rinvii interpretativi alla Corte UE da parte dei Giudici nazionali di tutti i Paesi membri, Italia compresa.
Alcune sentenze sono molto note e, tra queste, la sentenza del 18/4/2002 nel procedimento C- 9/00 – “Palin Granit Oy”, da parte del Giudice finlandese, con particolare riferimento alla sensibilissima nozione di “rifiuto”.
Sono state d’altronde moltissime le sentenze rese dalla Corte UE che, nel tempo, hanno “aiutato” i Giudici nazionali ad inquadrare correttamente detta nozione, oltre che quelle di “riciclaggio”, “produttore”, “detentore”, “riutilizzo”, “residui di produzione”, “sottoprodotto”, “spedizione di rifiuti all’interno della Comunità Europea, nonché in entrata e uscita dal suo territorio” ed ulteriori altre nozioni di volta in volta rilevanti per la decisione del giudizio nazionale dal quale il rinvio pregiudiziale interpretativo traeva origine.[1]
E’ anche noto che l’evoluzione del diritto UE e la modifica nel corso del tempo di Regolamenti e Direttive, non solo in questa materia, costituisce una presa d’atto della giurisprudenza della Corte UE dalla quale trae origine la rivisitazione della normativa europea che tale giurisprudenza ha interpretato.
Sul punto, vale richiamare la Comunicazione 21/2/2007 della Commissione al Consiglio ed al Parlamento Europeo “interpretativa sui rifiuti e sui sottoprodotti”.
La Commissione, sulla base della giurisprudenza della Corte UE ha ritenuto di assumere una linea ufficiale quanto alla definizione di alcune nozioni essenziali in materia ambientale: prodotto, residuo di produzione, sottoprodotto e di specificare che oggetto della Comunicazione “è la distinzione tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è nell’ambito di un processo di produzione” (punto 2.1. della Comunicazione).
La Commissione sente poi il bisogno di ribadire che vi è un’ampia serie di materiali che sono prodotti nell’ambito di processi industriali e che potrebbero essere interessati dalla sua Comunicazione.
Chiarisce che, in gergo commerciale, si parla di “sottoprodotti”, “prodotti connessi”, “prodotti intermedi”, “prodotti secondari” o “prodotti derivati” e, in tale premessa, ribadisce che nessuno di questi termini è decisivo sul piano del diritto comunitario in materia di ambiente “a norma del quale i prodotti e i sottoprodotti ricevono vari trattamenti: un materiale è un rifiuto o non lo è”.
Nello sviluppo del proprio iter argomentativo, la Commissione si mostra ben consapevole del fatto che i materiali pericolosi possono essere contenuti nei rifiuti, così come, d’altronde, nei prodotti e ciò per sottolineare come la presenza di un materiale pericoloso che possa rappresentare un rischio per la salute umana e per l’ambiente, è certamente un indice importante, ma non è affatto sufficiente ad imporre che un certo bene possa essere qualificato come rifiuto, non pericoloso o pericoloso che sia.
La Comunicazione della Commissione si concentra quindi sulla fondamentale nozione di “disfarsi” (punto 3.1.) per poi toccare il tema relativo al fatto che un certo materiale possa essere considerato un “residuo di produzione” o un “prodotto”, partendo, nella sua analisi, dalla già citata sentenza “Palin Granit Oy” e dall’Ordinanza 15/1/2004 in causa C – 235/02 – “Saetti e Frediani”.
Nel contesto giurisprudenziale esaminato la Commissione rileva che, ad avviso della Corte, un materiale considerato residuo di produzione, non è necessariamente un rifiuto e che le caratteristiche che rendono un materiale adatto ad essere riutilizzato direttamente nel ciclo economico, possono indicare che tale materiale non va considerato un rifiuto, purché siano rispettati tre fondamentali requisiti; e cioè che:
- il riutilizzo di un materiale non sia solo eventuale ma certo;
- non richieda trasformazione preliminare;
- il tutto avvenga nella continuità del processo di produzione.
Ciò premesso va sottolineato che, nell’entrare successivamente nell’approfondita disamina dei tre requisiti, la Commissione specifica quale contenuto interpretativo debba essere dato ai requisiti medesimi.
Quanto al riutilizzo, ad esempio, richiamato il caso “Mayer Parry” in causa C – 440/00, la Commissione sottolinea che ben può verificarsi che solo una parte del materiale possa essere riutilizzata mentre il resto vada smaltito e che, quando non vi siano indizi sufficienti che garantiscano l’utilizzo certo di tutto il materiale in questione, esso vada considerato rifiuto. Precisa tuttavia che “l’esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi può indicare che il materiale oggetto del contratto sarà utilizzato e che quindi vi è certezza del riutilizzo” (punto 3.3.1.).
In poche parole, la circostanza che un dato materiale possa essere venduto ricavandone un profitto costituisce serio indizio della probabilità che tale materiale venga riutilizzato così come “un prezzo elevato, invece, che rientra nella media dei prezzi di mercato o superiore, può indicare che il materiale non è un rifiuto”.
Quanto al requisito della “trasformazione preliminare al riutilizzo ed al fatto che essa avvenga nella continuità del processo di produzione”, le statuizioni della Commissione sono decisive. La Commissione prende atto del fatto che spesso è necessaria una serie di operazioni al fine di rendere un sottoprodotto riutilizzabile ed ancora che “alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso l’utilizzatore successivo, altre ancora sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parti integranti del processo di produzione …non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto” (punto 3.3.2.).
Quanto poi al concetto di “parte integrante del processo di produzione in corso” la Commissione sottolinea che pur essendo un indizio negativo il fatto che, per essere trasformato, il materiale venga spostato dal luogo in cui è stato prodotto ad altro luogo ove avvengano le operazioni necessarie alla sua trasformazione, questo dato materiale non è affatto decisivo poiché “in presenza di processi industriali sempre più specializzati, questo elemento da solo non basta a costituire una prova. Gli utilizzatori successivi e le aziende intermediarie possono partecipare alla preparazione del materiale per il suo riutilizzo, svolgendo il tipo di operazioni descritte al punto 3.3.2.” (punto 3.3.3.).
Sempre al punto 3.3.3., la Commissione conclude, infatti, affermando che “Se…la preparazione del materiale per il suo riutilizzo avviene nel corso del processo di produzione e il materiale è successivamente spedito per poter essere riutilizzato, si ha allora un sottoprodotto, in conformità dei criteri stabiliti dalla Corte”.
Senza dilungarsi sul punto, sembra opportuno sottolineare che i principi affermati nella Comunicazione 21/2/2007, non essendovi una successiva Comunicazione di aggiornamento, hanno peraltro trovato una costante evoluzione nel corso del decennio successivo, in termini sempre coerenti con il principio generale dello “end of waste” cui la legislazione comunitaria si ispira.
Nella Comunicazione 21/2/2007 la Commissione rilevava come (all’epoca) la nozione di sottoprodotto, nota al gergo commerciale, non fosse invece specificamente definita dalla normativa UE.
Sappiamo, al contrario, che tale nozione si ritrova (attualmente) nella Direttiva 2008/98/CE all’art. 5 e che, coerentemente, la medesima nozione è rinvenibile nella normativa nazionale all’art. 184 bis del D.Lgs. n. 152/2006 che, al successivo art. 184 ter, indica le condizioni alle quali si ha cessazione della qualifica di rifiuto.
Tale normativa ha evidentemente recepito gli orientamenti in materia tanto della Corte Ue quanto della Commissione. Ed, infatti, ai sensi del citato art. 184 bis del D.Lgs. n. 152/2006, costituisce un sottoprodotto e non un rifiuto, qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Quanto all’art. 184 ter del D.Lgs. n. 152/2006, un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto ad un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
Se un Giudice nazionale (anche penale) nutrisse dei dubbi, non avrebbe altra via che il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte UE ex art. 267 del Trattato.
Daniele Venturini
[1] Tra le predette sentenze si citano quelle pronunciate in data: (i) 12/12/2013, nelle cause riunite C-241/12 e C-242/2012; (ii) 3/10/2013, nella causa C-113/12; (iii) 22/12/2008, nella causa C-283/07; (iv) 24/6/2008, nella causa C-188/07; (v) 18/12/2007, nella causa C-263/05; (vi) 18/12/2007, nella causa C-263/05; (vii) 18/12/2007, nella causa C-194/05; (viii) 8/9/2005, nella causa C-121/03; (ix) 11/11/2004, nella causa C-457/02; (x) 7/9/2004, nella causa C-1/03; (xi) 11/9/2003, nella causa C-114/01; (xii) 18/4/2002, nella causa C-9/00; (xiii) 15/6/2000, nelle cause riunite C-418/97 e C-419/97; (xiv) 25/6/1997, nelle cause riunite C-304/94, C-330/94, C-342/94 e C-224/95.