What is meant by ‘family’ today?
Our legal system today recognises the ‘traditional’ family as a natural society based on marriage, but also civil unions between same-sex people and de facto cohabitation between same–sex people or different sexes.
The Italian legislature has laid down precise and strict family obligations to be observed. However, the rights and duties of both de facto and civilly united couples are different from those of married couples. They do not change in the relationship between parents and children.
The aim of this paper is to show how the formal legal recognition of civil unions has favoured the spread of systems of protection of the affectivity of couples based on parallelism between the institutions of marriage (heterosexual) and registered partnership (same-sex).
In spite of the strong awareness raising in this sense and the will (or rather the duty) of the Italian legislator to comply with the European Union principles of non-discrimination and integration, unfortunately there is still no full equality of legal protection reserved for the various family “models”. We can only hope, therefore, that the principles sanctioned by the European Union will be fully absorbed into our legal system as soon as possible, so as to guarantee full and equal protection to all individuals who are part of society.
Cosa si intende oggi per ‘famiglia’?
L’odierna concezione di famiglia è incontrovertibilmente mutata rispetto al passato, in sintonia con i cambiamenti del costume e della coscienza sociale.
Il nostro ordinamento ad oggi, infatti, riconosce la famiglia non solo tradizionale, intesa quale società naturale fondata sul matrimonio, contratto da persone di sesso diverso, in conformità a quanto disposto dall’art. 29 Cost., ma anche – in forza della legge Cirinnà (Legge n. 76/2016) – le unioni di fatto tra persone dello stesso sesso (c.d. unione civile), da intendersi quale specifica formazione sociale ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost., nonchè le convivenze di fatto (c.d. famiglie di fatto) tra soggetti dello stesso sesso o di sesso diverso, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
All’interno di ogni famiglia, nella sua accezione più ampia, sussistono precisi e rigorosi obblighi familiari da osservare (i.e. coabitazione; fedeltà; reciproca assistenza morale e materiale; collaborazione; contribuzione ai bisogni della famiglia; obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza morale nei confronti della prole). Tuttavia, i diritti e i doveri delle coppie sia di fatto che unite civilmente sono diversi da quelli delle coppie sposate in forza di vincolo matrimoniale, mentre non cambiano nei rapporti tra genitori e figli.
Nello specifico, mentre nell’ambito del matrimonio vigono, ai sensi degli artt. 143 e 147 c.c., tutti i summenzionati obblighi, per quanto concerne le unioni civili e le convivenze di fatto, la legge Cirinnà prevede quali doveri reciproci a carico delle parti soltanto la coabitazione, l’assistenza morale e materiale e la contribuzione ai bisogni comuni, ma non anche l’obbligo di fedeltà né quello di collaborazione.
Soffermando l’attenzione sull’obbligo di mantenimento della prole, prescindendo dal “modello” di famiglia costituito, come poc’anzi accennato, nulla quaestio sul dovere di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo le capacità di lavoro professionale e casalingo, come disposto ai sensi degli artt. 147, 148 e 316-bis c.c., fin quando ovviamente ne sussistano i presupposti (i.e. età e autosufficienza economica). Sul punto, è doveroso fare una precisazione con riguardo alle unioni civili e alle convivenze di fatto tra soggetti dello stesso sesso, e precipuamente alla c.d. stepchild adoption (lett. “adozione del figliastro”), riferendosi a quelle particolari ipotesi di cui all’art. 44, c. 1 lett. d), della Legge sulle adozioni (L. 184/83) – riconosciute dalla giurisprudenza a garanzia del dettato di cui agli artt. 14 e 9 Cedu (ex multis, Cass. Civ., 19962/2016), ma non ancora dal legislatore – ove l’adozione avviene da parte del partner, anche omosessuale, o del coniuge omosessuale che conviva con i figli minori dell’altro, anche adottivi, instaurando un rapporto di genitorialità sociale. In tali ipotesi, l’art. 55 della Legge sulle adozioni prescrive che l’adottante assuma, al posto dei genitori biologici, i medesimi obblighi di cui all’art. 147 c.c. nei confronti del minore, e quindi anche quello di mantenimento.
Al contrario di quanto previsto nei rapporti genitori-figli, la disciplina relativa all’obbligo di mantenimento del coniuge o convivente more uxorio, dello stesso o di diverso sesso, a seguito di cessazione del rapporto, varia a seconda del “modello” di famiglia costituito.
Invero, alle sole coppie unite in matrimonio e unite civilmente viene riconosciuto il diritto all’assegno di mantenimento: nello specifico, nel solo ambito del matrimonio, nella fase di separazione, è previsto ex art. 156 c.c. l’assegno di mantenimento a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, qualora non abbia adeguati redditi propri; in fase di divorzio, invece, si applica la Legge 898/1970 a tutte le coppie coniugate, sia eterosessuali che omosessuali, la quale prescrive l’obbligo per uno dei coniugi di corrispondere un assegno periodico all’altro (c.d. assegno divorzile), in proporzione alle proprie sostanze e ai propri redditi, a seguito di accurata valutazione dei parametri di cui all’art. 5, comma 6, prima parte, della medesima Legge. Diversamente, obblighi di tal genere non sussistono in caso di cessazione della convivenza more uxorio, ipotesi in cui la Legge Cirinnà ha previsto un mero obbligo alimentare, a carico della parte economicamente più forte, in presenza di uno stato di bisogno del richiedente, sulla falsariga della previsione di cui all’art. 433 c.c. a tutela del principio di solidarietà familiare.
Il nostro ordinamento, tuttavia, non si limita a riconoscere gli obblighi di mantenimento dei figli e dell’altro coniuge, con l’unica eccezione – come visto – del mantenimento in favore del convivente di fatto, ma fornisce anche numerosi strumenti legali, sia in ambito civile che penale, volti a garantire piena tutela degli aventi diritto in caso di inadempimento dei suddetti obblighi.
Nello specifico, in sede civile, tra i rimedi a tutela dell’adempimento dell’obbligo di mantenimento in favore di coniugi/partner e dei figli si annoverano:
- L’obbligo di prestare garanzia ex art. 156, comma 4, c.c.
Tale norma prevede che il giudice che pronuncia la separazione può imporre al coniuge, se sussiste il pericolo che possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi economici posti a suo carico, di prestare idonea garanzia reale, come il pegno, ovvero personale, come ad esempio una fideiussione bancaria, lasciando all’obbligato piena facoltà di scelta della tipologia di garanzia da offrire.
Tale strumento è l’unico che può essere disposto dal giudice in via preventiva, senza la necessità di una consumata inadempienza, purché ovviamente sussista una situazione di pericolo.
- Il sequestro e l’ordine di pagamento diretto ex art. 156, comma 6, c.c.
A differenza del rimedio sopra descritto, è possibile ricorrere alla tutela di cui all’art. 156, comma 6, c.c. non in via preventiva, ma soltanto nel caso di mancato adempimento, anche parziale, dell’obbligo di mantenimento già disposto dal giudice. In siffatta ipotesi, quest’ultimo – su formale istanza dell’avente diritto – può disporre il sequestro di parte dei beni dell’obbligato, a garanzia dell’adempimento delle prestazioni economiche stabilite in sede di separazione[1] e può, inoltre, ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere periodicamente somme di denaro all’obbligato (i.e. datore di lavoro o INPS), che una parte di tali somme venga distratta in favore degli aventi diritto.
Ma non solo. Dal punto di vista penalistico, come meglio si vedrà di seguito, potrà essere applicata la pena di cui all’art. 570 c.p., ai sensi dell’art. 3 della l. 8 febbraio 2006 n. 54 che estende a tale fattispecie il dettato dell’art. 12-sexies della Legge sul divorzio.
- Il sequestro ex art. 8 Legge n. 898/1970 (Legge sul divorzio), e art. 3, comma 2, Legge n. 219/2012
L’art. 8, comma 7, Legge n. 898/1970 prevede che il giudice per assicurare che siano soddisfatte o conservate le ragioni del creditore in ordine al pagamento degli assegni, divorzile e di mantenimento in favore della prole, può disporre il sequestro dei beni del coniuge obbligato. In tale fattispecie, a differenza del disposto di cui all’art. 156, comma 6, c.c., non è necessario né il pregresso inadempimento da parte dell’obbligato, essendo sufficiente il pericolo di inadempimento, né alcun limite rispetto al quantum dei beni da sequestrare.
Tale misura, ai sensi dell’art. 3, comma 2, Legge n. 219/2012, si applica con riferimento a tutti i contributi relativi al mantenimento dei figli, sia che i genitori siano separati, sia che siano divorziati, ovvero ex conviventi.
- L’ammonimento e il risarcimento del danno per illecito endofamiliare ex art. 709-ter c.p.c.
Con l’introduzione di tale norma, avvenuta nel 2006, il giudice, in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque possano arrecare pregiudizio al minore (tra questi, la mancata corresponsione del mantenimento), può modificare i provvedimenti in vigore e, congiuntamente, ammonire il genitore inadempiente; disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore; disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro; condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende. Accade soventemente che le misure più efficaci consistano proprio in sanzioni pecuniarie, senza dubbio più incentivanti all’adempimento rispetto a un semplice ammonimento.
Sul versante penalistico, invece, il presidio a tutela dei diritti familiari è apprestato dalle disposizioni contenute nel titolo XI del libro II del Codice Penale. L’effettivo bene giuridico di tali reati, tuttavia, risulta dibattuto in quanto, come detto all’inizio del presente contributo, si pone come indissolubilmente connesso al concetto stesso di “famiglia”, il quale, negli anni, ha subìto numerosi mutamenti in linea con il contesto sociale e culturale. Il risultato di tale evoluzione si è riversato sul piano legislativo con la disciplina tracciata dalla Legge n. 76/2016 e dal D.lgs. n. 6/2017 in materia di famiglia di fatto e unioni civili.
L’originario dettato normativo, ruotante attorno al concetto unico di famiglia, appare oggi anacronistico e non più rispondente alle esigenze sociali. Il primo passo del legislatore penale verso un riconoscimento di tali nuove aggregazioni è stato quello di prevedere, all’esterno del titolo poc’anzi menzionato, un’aggravante in tema di pornografia minorile[2] e la facoltà di astensione dalla testimonianza per il convivente dell’imputato[3] riconoscendo, di fatto, un primo rilievo alla convivenza extramatrimoniale. La giurisprudenza, invece, ha dato voce alla famiglia di fatto pronunciandosi sulla violazione degli obblighi di assistenza familiare e in tema di maltrattamenti.
Il legislatore ha quindi preso atto, tramite la Legge n. 172/2012 e il D.lgs. 6/2017, del mutamento sociale sancendo sia la piena equiparazione tra famiglia istituzionale e le altre forme di convivenza in relazione al reato di maltrattamenti previsto all’art. 572 c.p., sia la piena equiparazione ai fini della legge penale tra matrimonio e unione civile tra persone dello stesso sesso ex art. 574-ter c.p. Nello specifico, in riferimento a quest’ultima novità, si stabilisce che il termine “matrimonio” si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile; ancora, quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato, essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile.
Proprio in relazione alle unioni civili, è interessante fermare lo sguardo ai reati previsti nel capo IV del titolo XI dedicato ai delitti contro l’assistenza familiare, e in particolare all’applicabilità dell’articolo 570 c.p. rubricato “violazione degli obblighi di assistenza familiare” e dell’articolo 570-bis c.p. rubricato “violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”.
In particolare, l’art. 570 c.p. racchiude una serie di fattispecie che sanzionano il soggetto che pone in essere condotte contrarie agli obblighi familiari in costanza di rapporto, ossia:
- abbandonare il tetto domestico o comunque serbare un comportamento contrario alla morale o all’ordine della famiglia, sottraendosi agli obblighi di assistenza derivanti dalla responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge. Sul punto, si può comunque ricordare che il coniuge che si allontani per giusta causa mantiene il diritto di assistenza morale e materiale contenuto nell’art. 143 c.c. e può altresì chiedere all’altro la corresponsione di un assegno di mantenimento o alimentare;
- ledere il patrimonio economico del figlio minore o del coniuge. Il coniuge che si allontani senza giusta causa, invece, perde il proprio diritto all’assistenza, ma non può sottrarsi ai doveri per la contribuzione ex 143, comma 3, c.c. e mantenimento dei figli ex art. 147 c.c.;
- far mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge non separato per sua colpa.
La fattispecie di cui all’art. 570-bis c.p., invece, estende le pene dell’articolo precedentemente analizzato alla situazione in cui le violazioni degli obblighi di assistenza gravino sull’ex coniuge (quindi dopo lo scioglimento del matrimonio, unione civile o in caso di separazione). Nello specifico, le condotte penalmente rilevanti sono in sostanza:
- l’inadempimento dell’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio (mancato versamento dell’assegno divorzile);
- l’inadempimento degli obblighi di natura economica inerenti all’affidamento dei figli;
- l’inadempimento degli obblighi economici inerenti alla separazione dei coniugi.
Come già accennato poc’anzi, tali fattispecie sono certamente applicabili anche ai rapporti tra le parti dell’unione civile attraverso l’applicazione della norma di chiusura di cui all’art. 574-ter c.p.
Non si può, tuttavia, estendere la summenzionata disciplina in materia di convivenze di fatto, in quanto la Legge Cirinnà le ha sì riconosciute, ma non ha previsto alcun obbligo di mantenimento in capo agli ex conviventi in caso di cessazione del rapporto (se non un mero obbligo alimentare quando ne ricorrano i presupposti di legge), né ovviamente una disciplina sanzionatoria. Pertanto, in assenza di espresse previsioni in tal senso, non risulta applicabile ai conviventi di fatto le fattispecie di reato in parola poiché ogni riferimento è esplicitamente circoscritto al coniuge. Ne consegue che, venendo meno la qualifica soggettiva, viene meno anche il reato.
È evidente che il legislatore non abbia avuto la volontà di predisporre in favore delle convivenze more uxorio le medesime tutele, in punto obbligo di assistenza, previste per i coniugi. La riprova di quanto detto è che il legislatore, laddove abbia voluto estendere una tutela alle convivenze more uxorio, è effettivamente intervenuto prevedendolo in modo esplicito, come avvenuto nel caso dei maltrattamenti contro familiari previsto all’art. 572 c.p. D’altronde ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit.
Alla luce di quanto sopra esposto, si può dunque concludere che l’ordinamento statale italiano ha iniziato progressivamente ad evolversi – grazie in particolare all’applicazione delle carte dei diritti fondamentali dell’uomo – e a conformarsi sul piano giuridico all’evoluzione socio-culturale. In tale contesto, il riconoscimento giuridico formale delle unioni tra persone dello stesso sesso ha favorito la diffusione di sistemi di tutela dell’affettività di coppia fondati sul rigido parallelismo tra gli istituti del matrimonio (eterosessuale) e dell’unione registrata (omosessuale). Nonostante la forte sensibilizzazione in tal senso e la volontà (o meglio il dovere) del legislatore italiano di conformarsi ai principi euro-unitari di non discriminazione e integrazione, ad oggi non sussiste ancora, purtroppo, una piena equiparazione delle tutele giuridiche riservate ai vari “modelli” di famiglia. Non si può, dunque, che auspicare che i principi sanciti dall’Unione Europea vengano pienamente assorbiti quanto prima nel nostro ordinamento, in modo tale da garantire totale ed eguale tutela a tutti gli individui che sono parte della società.
Erica Roncallo Silvia Bossi