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Può un androide difendere un imputato? Ipotesi applicative dell’intelligenza artificiale sulle scelte in udienza preliminare
Data: 20 Mag 2019
Autore: Serena Pagliosa

Sull’onda del successo del Convegno “DET” (Diritto Economia e Tecnologia), organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Genova e tenutosi nel capoluogo ligure il 10 ed 11/5/2019, è sicuramente opportuno fare alcune ipotesi circa l’applicabilità dell’intelligenza artificiale (il cui sviluppo appare, in una prospettiva di medio termine, inevitabile ed inarrestabile) all’attività finalizzata a selezionare ed imbrigliare le possibili scelte, cui si trova di fronte l’avvocato penalista, nel momento in cui è chiamato ad assistere un imputato nella fase dell’udienza preliminare.

Si tratta di un primo, timido e prudente tentativo di proporre al pubblico (ma, prima di tutto, a noi stessi avvocati ( ovviamente desiderosi di preservare nel futuro il nostro lavoro) la seguente affascinante domanda: può un androide “intelligente”, cioè una replica artificiale dell’intelligenza umana, dotata di sua autonoma attività, sostituire l’avvocato penalista nel suo ruolo imprescindibile di difensore dell’indagato e dell’imputato?

Sappiamo quale sia l’importanza che il sistema giuridico e giudiziario riconosce alla figura del difensore (anche prima dell’agognato inserimento dell’avvocato in Costituzione, all’art. 111, comma 2). Basti pensare al principio del divieto di autodifesa (salve le ipotesi in materia di cause civili di valore bagatellare).

Sappiamo già (ovviamente, fin dai tempi di Cicerone e prima con i rétori greci) in cosa si sostanzia l’attività difensiva posta in essere dagli avvocati umani: in buona sostanza e con un arduo tentativo di sintesi estrema, l’individuazione del punto nodale del processo, ossia, della questione, di diritto e/o di fatto, dalla cui soluzione dipende l’esito della causa e l’individuazione e la scelta della strategia difensiva (cfr. “La difesa penale”, Alessandro Traversi, Giuffrè, IV Edizione, 2009, pagg. 21-27).

Credo che, arrivato a questo punto del faticoso tentativo di trattare dell’”avvocato-androide”, è bene gettare la maschera e chiarire che questa idea è derivata dalla lettura di un classico della fantascienza, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, romanzo di Philip K. Dick del 1968, da cui è stata tratta la sceneggiatura dei “cult movie” “Blade Runner” del 1982 ed il recente “sequel” “Blade Runner 2049”.

Il genio tormentato di Philip K. Dick ha, infatti, ipotizzato, cinquant’anni fa, un futuro in cui le esigenze della economia e della tecnica (assieme agli esiti catastrofici, per l’ambiente, di un conflitto nucleare) avrebbero condotto alcune corporation (non solo statunitensi) a realizzare delle repliche di essere umani (con un periodo di vita predeterminato, a causa della impossibilità di rigenerare a tempo indefinito le cellule artificiali), dotati di autonomia ed autocoscienza e destinati ad assistere, nei lavori più pesanti, gli emigranti che andavano a colonizzare Marte.

Fuor di metafora, ci si potrebbe chiedere se l’odierno esuberante sviluppo della tecnologia informatica e la realizzazione di macchine capaci di imparare (“machine learning”) e di replicare percorsi decisionali tipici dell’intelligenza umana (reti neurali) possano spingere l’economia e la tecnica, all’esito di una gravissima crisi economica (cominciata con il fallimento della Lehman Brothers nel 2008 e non ancora stabilizzatasi nei suoi postumi) a replicare le capacità umane necessarie a svolgere lavori di cui è indiscussa la rilevanza, come quello del medico (pensiamo alle applicazioni chirurgiche della robotica), del notaio (pensiamo alla rivoluzione rappresentata dalla “Blockchain”) e dell’avvocato.

Vi è da dire che, finora, nell’ambito delle professioni legali, il tema della robotizzazione è stato posto con particolare enfasi con riferimento alla possibile sostituzione dei Giudici con delle intelligenze artificiali capaci di decidere i casi concreti loro sottoposti sulla base di uno o più specifici algoritmi.

Si pensi a quanto sta avvenendo nella civilissima e nordica Estonia dove, entro quest’anno, verrà attivato un vero e proprio Giudice digitale, competente a conoscere, nella sua giurisdizione, le cause civili fino ad un valore massimo di €. 7.000,00.

Del resto, sul punto, vale l’autorevole riflessione del Magistrato francese (e Segretario Generale dell’Institut des Hautes Etudes sur la Justice) Antoine Garapon che, nella sua recentissima opera “Justice Digitale” (Puf, 2019), chiarisce come sia ancora prematuro, oggi, valutare il futuro, possibile, concreto impatto delle innovazioni digitali sul complessivo comparto della giustizia (sostituzione degli avvocati da parte di robot, scomparsa dei notai, risoluzione dei conflitti in linea, giustizia predittiva, stato civile ed altri pubblici registri tenuti mediante il ricorso alla tecnologia della Blockchain, diffusione massiva di contratti in Bitcoin che si sottraggono ad ogni controllo, anche e soprattutto fiscale).

A tal proposito, la valutazione che viene effettuata dallo studioso d’Oltralpe è nel senso di non farsi travolgere psicologicamente dalla deflagrazione di queste innovazioni tecnologiche, così impattanti sul nostro modo ordinario di inquadrare il mondo della giustizia e del diritto, e continuare a cercare l’”epicentro antropologico” di questa rivoluzione.

Sì, perché all’interno (e quale motore) di ogni rivoluzione c’è sempre l’uomo. C’era l’uomo nella rivoluzione industriale e c’è l’uomo oggi nella rivoluzione digitale. Si tratta solo di individuare il suo ruolo (il ruolo proprio dell’umano!) in questo fenomeno epocale.

Ed è proprio in questo contesto che si possono iniziare a fare delle ipotesi su come una intelligenza artificiale possa sostituire un avvocato penalista nelle complesse valutazioni che questo professionista è chiamato ad effettuare quando si trova a difendere un imputato che deve affrontare l’udienza preliminare.

Il punto della individuazione del ruolo dell’umano sta proprio qui: nel valutare se un avvocato possa (e come) istruire una macchina (“machine learning”, per l’appunto), trasmettendo alla stessa le proprie regole di esperienza desunte dai casi già affrontati nella sua attività professionale.

Del resto, senza volere in alcun modo offendere i più giovani Colleghi, gli avvocati, arrivati ad un certo punto della loro crescita professionale e lavorativa, non sono chiamati (e necessitati) a trasmettere il loro sapere giuridico ed esperienziale a Praticanti e più giovani Colleghi al fine ultimo di passare loro il testimone di questa bella ma anche faticosa professione?Qual è la differenza nell’insegnare la propria esperienza ad un Praticante o ad una intelligenza artificiale?

Certo, rimanendo nella metafora di “Blade Runner”, la vita dell’avvocato non è dura come avrebbe potuto essere quella del migrante su Marte, necessitato a farsi aiutare da robusti androidi. Ma sicuramente il quesito che ci poniamo non è meramente vuoto e provocatorio, ma va a cogliere il cuore della questione della digitalizzazione delle professioni legali.

Posto che in Estonia ci si sta preparando, a breve (entro questo 2019), a far entrare in servizio un Giudice civile digitale, è chiaro che lo stato dell’arte della tecnologia informatica in materia di “Machine learning” e reti neurali, consente di programmare queste macchine istruendole su come affrontare, sulla base di regole comportamentali e di esperienza predefinite dal programmatore, un set ampio (ma, necessariamente, predeterminato) di controversie standard e di decidere sulle stesse.

Allo stesso modo, quindi, il programmatore potrebbe programmare/educare una intelligenza artificiale su come affrontare, in un’ottica defensionale propria dell’avvocato, determinati snodi processuali, al fine di individuare, sulla base di una valutazione di tipo predittivo, le migliori scelte processuali da adottare nell’interesse dell’indagato/imputato.

E veniamo, quindi, all’udienza preliminare che, come noto, è uno snodo fondamentale nel procedimento penale considerato nel suo complesso, in quanto, all’esito delle indagini preliminari e della richiesta di rinvio a giudizio, è previsto che un Giudice (per l’appunto, il Giudice dell’Udienza Preliminare) verifichi, senza entrare approfonditamente nel merito della questione, se il Pubblico Ministero può o meno sostenere l’esistenza della notizia di reato contenuta nel capo di imputazione. Nel primo caso, il Giudice emette un decreto che dispone il giudizio di fronte al Giudice dibattimentale; nel secondo caso, il Giudice emette una sentenza di non luogo a procedere.

L’udienza preliminare risulta essere uno snodo processuale fondamentale anche perché, ai sensi dell’art. 438 comma 2 c.p.p., l’imputato può richiedere di essere giudicato con il rito del giudizio abbreviato fino a che non siano formulate le conclusioni dell’udienza preliminare.

Il giudizio abbreviato è un giudizio allo stato degli atti, ossia, un giudizio che si basa, di regola, sugli atti raccolti dal Pubblico Ministero durante le indagini e, quindi, non consente l’acquisizione di prove documentali o dichiarative salve le ipotesi residuali di integrazioni probatorie richieste dalla difesa dell’imputato ed accolte dal Giudice. La caratteristica premiante del giudizio abbreviato è che, in caso di condanna, la pena viene abbattuta di un terzo rispetto a quella che ipoteticamente sarebbe stata irrogata dal Giudice a seguito del giudizio dibattimentale.

Come noto, peraltro, il giudizio abbreviato non è soltanto un “guilty plea”, ossia, un giudizio cui il difensore ricorre solo esclusivamente quando il cliente è riguardato da prove di colpevolezza schiaccianti (si pensi a chi è imputato per la detenzione di sostanza stupefacente rinvenuta sull’automobile di proprietà dello stesso e sempre da quest’ultimo condotta).

In alcuni casi, infatti, a causa della grave contraddittorietà e/o lacunosità degli atti di indagine raccolti dal Pubblico Ministero, il giudizio abbreviato non può che condurre il Giudice ad assolvere, magari con una formula dubitativa, ai sensi dell’art. 530 comma 2 c.p.p., l’imputato, alla luce del fondamentale principio di origine nordamericana in base al quale la sentenza di condanna può essere emessa solo ove la penale responsabilità dell’imputato risulti provata oltre ogni ragionevole dubbio (v. art. 533 comma 1 c.p.p.).

Ipotizziamo un capo di imputazione in cui l’imputato sia chiamato a rispondere del reato di cui     all’art. 513 “bis” c.p. (Illecita concorrenza con minaccia o violenza) per: “avere, nella sua attività di impresa, compiuto atti di concorrenza, con violenza o minaccia, nei confronti dell’imprenditore concorrente Tizio, minacciando il dipendente di quest’ultimo, Caio, che se non fosse passato a lavorare per la sua impresa lo avrebbe fatto aggredire da alcuni soggetti malavitosi…”.

Ebbene, ipotizziamo che, nel fascicolo del Pubblico Ministero, vi siano le sommarie informazioni rese da tutte le persone informate sui fatti, “in primis”, l’imprenditore denunciante Tizio, poi, i suoi familiari, collaboratori ed il dipendente Caio e che tutti, tranne quest’ultimo, confermino quanto dichiarato in denuncia dall’imprenditore Tizio.

Ipotizziamo che il dipendente (che si ipotizza stornato a forza dall’imputato) abbia reso dichiarazioni in cui viene smentita in radice la versione dei fatti del suo ex datore di lavoro denunciante, affermando che il suo passaggio dal precedente al nuovo datore di lavoro è stato del tutto volontario e non vi è stata alcuna pressione da parte del nuovo datore.

In un caso del genere, è chiaro che, nell’ambito della predittabilità dell’esito di un giudizio abbreviato, risulta probabile che, alla luce di questa grave contraddizione del compendio probatorio a carico dell’imputato, un giudizio abbreviato possa concludersi con una sentenza di assoluzione, quanto meno con un formula dubitativa.

A questo punto, arriviamo alla macchina. Potrebbe una intelligenza artificiale porre in essere queste operazioni di verifica? Ossia:

  • Leggere il capo di imputazione e vedere che un ganglo fondamentale dello stesso (senza cui lo stesso è destinato cadere) è il forzato storno del dipendente Caio da parte dell’imputato;
  • Leggere tutte le sommarie informazioni e vedere/riconoscere che la deposizione del dipendente Caio confligge con quanto enunciato nel capo di imputazione;
  • Consigliare di richiedere il giudizio abbreviato.

Alla luce di quanto sopra indicato in materia di sviluppo del “Machine learning”, delle reti neurali e di quanto sta avvenendo in Estonia (con la imminente attivazione di un Giudice civile digitale), la risposta a questa domanda non può che essere positiva.

Al di là delle suggestioni fantascientifiche alla “Blade Runner”, credo che questa macchina, ben lungi dall’essere simile ad aggressivi androidi umanoidi, potrebbe avere la forma di una sofisticata fotocopiatrice in cui si inseriscono tutti gli atti fondamentali del fascicolo del Pubblico Ministero (capo di imputazione e sommarie informazioni delle persone informate sui fatti), esattamente come oggi, in una fotocopiatrice, si inseriscono dei documenti da far scansionare.

All’esito di questa operazione, dopo alcune decine di secondi, la macchina potrebbe inviare alla postazione informatica dell’avvocato umano una mail con un primo “screening” sulla esistenza di contraddizioni nel compendio probatorio raccolto dal Pubblico Ministero e la conseguente valutazione sulla utilità o meno di adire il giudizio abbreviato.

E’ chiaro che, a questo punto, il cerchio si chiuderebbe, in ossequio all’esigenza di individuare sempre l’”epicentro antropologico” delle innovazioni (v. pensiero di Antoine Garapon), con una finale e definitiva decisione sulla strategia processuale da parte dell’avvocato appartenente alla specie “homo sapiens sottospecie sapiens”.

Avv.Luca Robustelli

 

 

 

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