Sono ormai settimane che sulle prime pagine dei quotidiani compaiono titoli relativi ad indagini e procedimenti aventi ad oggetto la rivelazione, da parte di soggetti qualificati, dei così detti “segreti d’ufficio”.
Non più tardi dello scorso venerdì, infatti, il Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Roma ha disposto l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro delle Vedove per rivelazione di atti d’ufficio, reato previsto dall’art. 326 c.p.
Ancora, di maggiore rumore mediatico, lo scorso 3 luglio, il Tribunale di Brescia in composizione collegiale, ha depositato le motivazioni nell’ambito del processo all’ex magistrato Dott. Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio ex art. 326 c.p. condannandolo alla pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e concedendo la non menzione e le attenuanti generiche.
Soffermando l’attenzione su tale ultima vicenda, secondo la ricostruzione del Tribunale di Brescia, l’ex consigliere del CSM Dott. Davigo, nell’aprile del 2020, avrebbe incontrato un magistrato della Procura di Milano, il Dott. Storari, il quale gli avrebbe consegnato dei verbali – atti di un’indagine ancora in corso – contenenti dichiarazioni circa la presunta esistenza di una organizzazione chiamata “Loggia Ungheria” di cui avrebbero fatto parte numerosi magistrati ed avvocati.
Una volta ricevuti in via confidenziale tali atti, l’ex consigliere li avrebbe, poi, diffusi divulgandone il contenuto a diversi alti magistrati, consiglieri del CSM e parlamentari.
Tali azioni, come detto, integrerebbero il reato previsto dall’art. 326 c.p. rubricato come Rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio il quale stabilisce che:
“Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.
Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni”.
Per interpretare al meglio una disposizione, occorre chiedersi prima di tutto, quale sia la ratio della stessa. Più semplicemente, che cosa vuole “proteggere” la norma?
Per rispondere a questa domanda è necessario richiamare l’art. 329 c.p.p. il quale è rubricato come “Obbligo del segreto” ed è collocato nel Libro V del codice di procedura penale dedicato alle indagini preliminari ed all’udienza preliminare.
Tale disposizione impone la regola generale dell’obbligo del “segreto” per gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero – che si ricorda essere il dominus delle indagini preliminari, colui che dirige l’attività investigativa e coordina lo svolgimento degli atti di indagine – e dalla polizia giudiziaria compiuti durante la fase delle indagini preliminari.
Con il termine “segreto” – chiamato anche segreto istruttorio o segreto investigativo – si indica un limite oggettivo alla conoscibilità degli atti compiuti durante la fase delle indagini: su tutti i soggetti coinvolti nello svolgimento dell’atto di indagine grava, infatti, l’obbligo di non rivelarne il contenuto a terzi estranei (sia facenti parte della polizia giudiziaria sia soggetti esterni).
L’unica eccezione alla regola anzidetta è quella che si verifica nel caso in cui siano in essere indagini “collegate” (per esempio quando la prova di un reato influisce sulla prova di un altro reato commesso da un soggetto diverso) e che, quindi, per motivi di economia processuale, i diversi uffici del Pubblico Ministero assegnatari dei differenti procedimenti siano obbligati a coordinarsi tra loro e, quindi, scambiarsi informazioni.
Il limite del segreto istruttorio viene totalmente meno, invece, in due momenti precisi indicati dal codice di procedura penale:
- quando il pubblico ministero, al fine della prosecuzione delle indagini, dispone il compimento di un atto indagine che l’indagato “può” conoscere;
- quando vi è la conclusione delle indagini.
Tutto il meccanismo poc’anzi descritto è stato pensato dal Legislatore proprio per contemperare due diverse esigenze sancite dalla nostra Costituzione: da un lato, la necessità di proteggere la ricerca delle fonti di prova – e, quindi, più in generale tutelare il corretto funzionamento del procedimento penale – e, dall’altro lato, assicurare il diritto di difesa in capo alla persona sottoposta alle indagini.
Ed è proprio per proteggere i principi appena tratteggiati che il Tribunale di Brescia ha ritenuto di condannare l’ex consigliere del CSM Dott. Davigo per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio previsto dall’art. 326 c.p.
È bene precisare, però, che la verità processuale emersa nel corso dell’istruttoria dibattimentale non è che una ricostruzione “provvisoria” atteso che la difesa dell’imputato ha già annunciato di volere ricorrere in appello.
Non ci resta che attendere il naturale corso della giustizia.
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